di Enzo Barone
E’ in corso di svolgimento a Palazzo Jung la mostra
Impressioni-Espressioni dal 13 al 29 giugno, che raccoglie una quarantina
di opere di quattro artisti. Gli acquerelli freschissimi e vitali di Valeria
Biondo, le tele sospese tra l’astrattismo modulare di Mondrian e
l’espressionismo astratto di Rotko e Pollock di Gianluca Napoli e in fine le
virate impressionistiche postmoderne di Idfeoart (Antonino Di Maria e Marco Valenti).
Le opere sono tutte di buon livello (per lo meno rifuggono i facili manierismi, le secche dei facili intellettualismi).
Se non che, a fine visita - se non intervenisse la garbata spiegazione del Valenti - vi sorprenderà una tabella didascalica distrattamente incollata ad un pilastro, che vi chiarirà come in verità non si tratta di tele dipinte, ma di stampe digitali impresse su tela, per cui l’istintiva attrazione verso la purezza dei tocchi di colore giustapposto, in linea con l’impressionismo più ortodosso (e fatalmente assolutamente datato), lascerà il posto ad una legittima richiesta di approfondimento, alla formulazione di una domanda di senso ulteriore.
Allora apprenderete che il processo che porta a queste opere è lungo, raffinato, artisticamente iniziatico direi.
Si parte dalla fotografia di un soggetto (un monumento, un paesaggio appunto), poi per decantazione quasi, si circoscrive, si filtra, si vettorializza l’immagine (un procedimento di digitalizzazione dell’immagine particolarmente avanzato) e la si trasforma, con l’utilizzo di vari tipi di filtri incrociati; la si modifica infine pittoricamente, saturando o schiarendo localmente i toni, integrando, se serve.
Complessivamente l’operazione è molto più artigianale e romantica di quanto si pensi.
Intanto perché il risultato ultimo sono delle opere gradevolmente, autenticamente impressioniste; delle accattivanti marine, alcune letture sorprendenti di scorci di architettura arabo-normanna, delle stimolanti composizioni cromatiche per macchie (con un che di opportuno razionalismo puntiglista); poi, si diceva, in fondo la artigianalità dell’artista non si perde, ma riemerge nella mano di chi opera le varie metamorfosi digitali o più propriamente nella sapienza dell’uso del pennello elettronico, laddove l’artista ritenga di doverlo fare.
Per non parlare del fatto, che analogamente agli impressionisti ottocenteschi, ficcarsi nel meraviglioso caos della realtà, impazzire per cogliere un barbaglio di luce, appassionarsi per lo scemare di un carminio al tramonto è un’attività poetica, mistica o intellettuale se volete, degna di perenne ammirazione. Non computer grafica, non post-pop-art e nemmeno arte digitale quindi, secondo me, ma pittura vera e propria fatta con altri strumenti.
Pittura integrata forse, ecco.
Le opere sono tutte di buon livello (per lo meno rifuggono i facili manierismi, le secche dei facili intellettualismi).
Particolarmente interessante e avanzata mi pare l’opera
degli ultimi due artisti. Soprattutto per la quota di volontà di ricerca, di
sperimentazione - assai moderata, peraltro - che contiene.
Parrebbe ad una prima occhiata di trovarsi davanti ad un
lavoro abbastanza consueto, una ventina di tele con panoramiche, scorci o
dettagli “fotografici” di alcune icone della Palermo turistica o di fiori
quotidianamente esotici.Se non che, a fine visita - se non intervenisse la garbata spiegazione del Valenti - vi sorprenderà una tabella didascalica distrattamente incollata ad un pilastro, che vi chiarirà come in verità non si tratta di tele dipinte, ma di stampe digitali impresse su tela, per cui l’istintiva attrazione verso la purezza dei tocchi di colore giustapposto, in linea con l’impressionismo più ortodosso (e fatalmente assolutamente datato), lascerà il posto ad una legittima richiesta di approfondimento, alla formulazione di una domanda di senso ulteriore.
Allora apprenderete che il processo che porta a queste opere è lungo, raffinato, artisticamente iniziatico direi.
Si parte dalla fotografia di un soggetto (un monumento, un paesaggio appunto), poi per decantazione quasi, si circoscrive, si filtra, si vettorializza l’immagine (un procedimento di digitalizzazione dell’immagine particolarmente avanzato) e la si trasforma, con l’utilizzo di vari tipi di filtri incrociati; la si modifica infine pittoricamente, saturando o schiarendo localmente i toni, integrando, se serve.
Complessivamente l’operazione è molto più artigianale e romantica di quanto si pensi.
Intanto perché il risultato ultimo sono delle opere gradevolmente, autenticamente impressioniste; delle accattivanti marine, alcune letture sorprendenti di scorci di architettura arabo-normanna, delle stimolanti composizioni cromatiche per macchie (con un che di opportuno razionalismo puntiglista); poi, si diceva, in fondo la artigianalità dell’artista non si perde, ma riemerge nella mano di chi opera le varie metamorfosi digitali o più propriamente nella sapienza dell’uso del pennello elettronico, laddove l’artista ritenga di doverlo fare.
Per non parlare del fatto, che analogamente agli impressionisti ottocenteschi, ficcarsi nel meraviglioso caos della realtà, impazzire per cogliere un barbaglio di luce, appassionarsi per lo scemare di un carminio al tramonto è un’attività poetica, mistica o intellettuale se volete, degna di perenne ammirazione. Non computer grafica, non post-pop-art e nemmeno arte digitale quindi, secondo me, ma pittura vera e propria fatta con altri strumenti.
Pittura integrata forse, ecco.
Dalla pittura alla fotografia; dalla fotografia alla
pittura: il cerchio si chiude.
Se nella seconda metà dell’800, al culmine della crisi della
pittura-mimesis della natura, i più
avanzati nella ricerca, quelli che non volevano essere sorpassati dalla storia
e dalla tecnologia, gli impressionisti parigini, guardarono alla fotografia non
come ad una avversaria, ma come ad una alleata nella ricerca dell’autenticità della
visione, adesso qualcuno, nell’età dell’imperio assoluto della tecnologia
guarda nuovamente alla fotografia per tornare a fare pittura, usando la
tecnologia, per una
forma di pittura scientificamente fondata e ancora una volta per approfondire il
valore conoscitivo del reale.
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