martedì 18 giugno 2013

Impressioni-Espressioni: così lontane, così vicine...

di Enzo Barone

E’ in corso di svolgimento a Palazzo Jung la mostra Impressioni-Espressioni dal 13 al 29 giugno, che raccoglie una quarantina di opere di quattro artisti. Gli acquerelli freschissimi e vitali di Valeria Biondo, le tele sospese tra l’astrattismo modulare di Mondrian e l’espressionismo astratto di Rotko e Pollock di Gianluca Napoli e in fine le virate impressionistiche postmoderne di Idfeoart (Antonino Di Maria e Marco Valenti).

Le opere sono tutte di buon livello (per lo meno rifuggono i facili manierismi, le secche dei facili intellettualismi).
Particolarmente interessante e avanzata mi pare l’opera degli ultimi due artisti. Soprattutto per la quota di volontà di ricerca, di sperimentazione - assai moderata, peraltro - che contiene.
Parrebbe ad una prima occhiata di trovarsi davanti ad un lavoro abbastanza consueto, una ventina di tele con panoramiche, scorci o dettagli “fotografici” di alcune icone della Palermo turistica o di fiori quotidianamente esotici.
Se non che, a fine visita  - se non intervenisse la garbata spiegazione del Valenti - vi sorprenderà una tabella didascalica distrattamente incollata ad un pilastro, che vi chiarirà come in verità non si tratta di tele dipinte, ma di stampe digitali impresse su tela, per cui l’istintiva attrazione verso la purezza dei tocchi di colore giustapposto, in linea con l’impressionismo più ortodosso (e fatalmente assolutamente datato), lascerà il posto ad una legittima richiesta di approfondimento, alla formulazione di una domanda di senso ulteriore.
Allora apprenderete che il processo che porta a queste opere è lungo, raffinato, artisticamente iniziatico direi.
Si parte dalla fotografia di un soggetto (un monumento, un paesaggio appunto), poi per decantazione quasi, si circoscrive, si filtra, si vettorializza l’immagine (un procedimento di digitalizzazione dell’immagine particolarmente avanzato) e la si trasforma, con l’utilizzo di vari tipi di filtri incrociati; la si modifica infine pittoricamente, saturando o schiarendo localmente i toni, integrando, se serve.
Complessivamente l’operazione è molto più artigianale e romantica di quanto si pensi.
Intanto perché il risultato ultimo sono delle opere gradevolmente, autenticamente impressioniste; delle accattivanti marine, alcune letture sorprendenti di scorci di architettura arabo-normanna, delle stimolanti composizioni cromatiche per macchie (con un che di opportuno razionalismo puntiglista); poi, si diceva, in fondo la artigianalità dell’artista non si perde, ma riemerge nella mano di chi opera le varie metamorfosi digitali o più propriamente nella sapienza dell’uso del pennello elettronico, laddove l’artista ritenga di doverlo fare.
Per non parlare del fatto, che analogamente agli impressionisti ottocenteschi, ficcarsi nel meraviglioso caos della realtà, impazzire per cogliere un barbaglio di luce, appassionarsi per lo scemare di un carminio al tramonto è un’attività poetica, mistica o intellettuale se volete, degna di perenne ammirazione. Non computer grafica, non post-pop-art e nemmeno arte digitale quindi, secondo me, ma pittura vera e propria fatta con altri strumenti.
Pittura integrata forse, ecco.

Dalla pittura alla fotografia; dalla fotografia alla pittura: il cerchio si chiude.
Se nella seconda metà dell’800, al culmine della crisi della pittura-mimesis della natura, i più avanzati nella ricerca, quelli che non volevano essere sorpassati dalla storia e dalla tecnologia, gli impressionisti parigini, guardarono alla fotografia non come ad una avversaria, ma come ad una alleata nella ricerca dell’autenticità della visione, adesso qualcuno, nell’età dell’imperio assoluto della tecnologia guarda nuovamente alla fotografia per tornare a fare pittura, usando la tecnologia, per una forma di pittura scientificamente fondata e ancora una volta per approfondire il valore conoscitivo del reale.

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