martedì 10 maggio 2011

INCIPIT

di Daniela Palumbo

Niente zucchero, nemmeno un residuo. Nel vano aperto della credenza, ad altezza d'uomo, né sulle mensole sopra ai fornelli, nemmeno più una bustina di quelle raccattate al bar, dentro al contenitore di mestoli e posate. Nessuna traccia.
Ero sveglio da poco, quella mattina di fine inverno, nell'appartamento silenzioso già vuoto da qualche ora, non il mio. Sedevo al tavolo della cucina, qui in casa di lei, rammaricandomi di non aver portato con me, oltre al piccolo Giosuè, all'ingombrante fasciatura e alla mia vecchia valigia quadrata senza rotelle, anche il mio unico sgabello di sempre: avevo perso l'abitudine alla sedia, troppo comoda, bassa e stabile per una condizione come la mia, piuttosto libera, singolare e incerta per un uomo della mia età.

Rallentando di proposito il movimento del polso e della mano destra, come se ciascuna parte di me fosse stata fragilissima in quel momento, sorseggiavo il caffè lasciato per me da Sara sopra il tavolo, incredibilmente amaro.
Fragile, estremamente fragile, così mi sentivo: castello di carte francesi, intreccio di bastoncini dello shanghai, migliaia di frammenti su una ragnatela di vetro... Quest'ultima rimaneva scolpita nella mia memoria, con le infinite tessere di quel confuso mosaico; ricompariva puntuale nei miei sogni notturni, là dove tornavo a rivivere l'incidente senza che dovessi raccontarlo ad altri e inventarmi immagini e sensazioni più o meno plausibili.
L’incidente, in realtà, lo ricordavo come nel sogno da cui mi ero appena svegliato: senza rumori eclatanti, con l’avanzare delle luci dei fari fino al trauma finale dell’impatto, senza dolore. Solo l’angoscia, inspiegabile forse, che qualcuno a me molto caro e vicino fosse rimasto colpito. E fosse rimasto immobile, prigioniero silenzioso nel sedile dietro al mio, senza difese.
Chi era lì con me? Era realmente esistita quella presenza? E in quel momento dov’era?
Le solite domande, negli ultimi minuti del dormiveglia, cariche d’ansia e senza alcuna risposta.
Poi, il ritorno alla realtà delle cose tangibili, alla pelle delle pantofole recuperate sotto al letto, al pavimento irregolare della stanza fino al corridoio e al bagno, alla lucidità dello specchio. E con essa la ritrovata ragione: nessun altro, a parte me, occupava lo spazio interno della mia macchina quella sera; al momento dello scontro, con gli occhi sul vetro e la clavicola contro il volante, ero da solo.


Ero da solo, quel lunedì di fine inverno: Sara, come sempre, era già in studio. Sarebbe tornata intorno alle sette di sera, portandomi del pane fresco e il mio quotidiano, non ancora aperto né sfogliato. E avrebbe accompagnato giù in cortile Giosuè, che in questa casa pareva ancora più inquieto e insofferente, e si mostrava più restio del solito ad uscire. Aveva ridotto le passeggiate per i bisogni a quelle delle otto del mattino e del dopocena, ogni volta tirando fino quasi a strozzarsi il suo sottile guinzaglio in cuoio, per l’ansia di rientrare, incontenibile.
Io li guardavo, tutte le volte, li guardavo non visto dalla finestra di questo secondo piano; li osservavo entrambi, dall’alto, con un senso di pietà, il braccio di lei trascinato da quel piccolo corpo affusolato, che solo vagamente assomigliava a un cane, con le orecchie indietro e la lingua fuori da un lato, immaginavo di sentire il suo ansimare. Poi chiudevo gli occhi e presagivo i passi pesanti e affrettati di lei su per i gradini, fino a qui, fino a qualche istante prima del gracchiare della toppa.

Ero da solo, col rumore della pioggia in sottofondo e la radio accesa nell'appartamento accanto, quello di lei. Aspettavo Agnese.

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