di Francesco Scrima
Ci sono libri di poesia che affascinano, altri che colpiscono, altri ancora che si dimenticano subito. “Il nome di mia madre” non appartiene a nessuna delle tre suddette categorie. “Il nome di mia madre” è un libro di poesie che coinvolge e che trascina il lettore in un gorgo di sensazioni, da cui si riemerge a fatica.
La raccolta si presenta come un racconto, da seguire attraverso più piani narrativi (diacronico, sincronico, spaziale), i cui protagonisti - quelli umani quelli naturali quelli astratti – appartengono alla balzachiana commedia umana, ora tragica ora grottesca, ed a quel caleidoscopio di sentimenti cui solo la memoria può avere accesso.
Sono intermittenze del cuore gli slanci d’amore filiale, viaggi nell’inconscio i simboli di quell’amore, lotte col proprio Super-io le icastiche discese nei meandri della malattia, che le parole e la musicalità loro propria non riescono ad esorcizzare.
E, su tutto, l’io lirico e narrante che ci guida (si guida) nelle tortuose vie di ricordi, che fanno capolino, come sole fra nubi, ovvero, nel rovesciamento delle parti, come lampi nel più sereno dei cieli, dal passato al presente ch’è di nuovo e per sempre passato, nella consapevolezza che non ci sarà più un futuro.
Il dialogo madre-figlio – il più terribilmente accorato dei dialoghi possibili agli umani – si dipana in questo groviglio, ed i suoni delle parole, dei lamenti, dei rimproveri, dei richiami, sono ferite che non sanno guarire, che sanguinano di troppo (o mai troppo) amore: se la notte incalza col suo buio, ogni luce si fa piccola per non sparire del tutto.
Alla fine, dire che “Il nome di mia madre” è anche una raccolta costruita con acribia dal più raffinato dei cesellatori – nella metrica, nelle figure retoriche, nella scelta lessicale – diventa un in più di pregio, purché non si dimentichi che l’amalgama prezioso di contenuto e forma, di langue e di parole, non disturba il racconto, anzi lo sostiene, l’arricchisce, quasi che in esso consista il tentativo di elaborare il lutto da parte dell’autore.
È raro, nella nostra epoca così povera di Bellezza e così arida di Vita, che ci si imbatta in qualcosa, come questo libretto di Andrea Castrovinci Zenna, che definire mero prodotto letterario sarebbe come dire che “uno asino facessi el corso di uno cavallo” (F. Guicciardini, Ricordi)
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