di Enzo Barone
Alle
otto e mezza erano ancora solo in tre davanti al ristorantino: Serena, Paoletta
e Manuela.
Manuela
era arrivata per prima. Non poteva essere diversamente, era lei l’infaticabile
organizzatrice, il deus ex machina di ogni iniziativa impegnata o disimpegnata
della classe. Serena e Paoletta erano arrivate insieme come a scuola. Peter le
aveva viste scendere da un’auto molto grande.
Una Mercedes blu troppo
ingombrante per Paoletta, che lei aveva parcheggiato con una certa
goffaggine. Peter aveva subito pensato
l’auto non le appartenesse, non alla ragazza svampita e soavemente leggera che
conosceva, non alla studentessa che arrivava a scuola scapigliata, con i jeans logori
e la borsa aperta dalla quale venivano giù libri ficcati dentro malamente. Aveva
immaginato che fosse stata rubata all’ultimo minuto dal garage del suo ultimo
compagno, magari un medico rinomato o un pezzo grosso di una banca, uno di
quelli sempre abbronzati, che alla Cala in estate armeggiano attorno a una
barca a vela con la camicia di lino aperta a metà e costosi mocassini senza
calze ai piedi. Quando finalmente Peter si era deciso a scendere dalla sua auto
posteggiata un po' in disparte una folata perfida di vento gli aveva immediatamente
tagliato il viso. Aveva velocemente tirato su la zip del giaccone, si era
sistemato il foulard attorno al collo. Poi aveva tirato su col fiato e si era
incamminato verso il locale. Nel cielo pieno di stelle la sovranità di una grande
luna sorvegliava la notte.
Non
era del tutto sicuro che sarebbe stata una tranquilla serata tra compagni; in
quella cena ci vedeva alcune potenziali insidie, quelle che la propria mente certe
volte istruiva a tempo debito, e presentava scrupolosamente davanti al
tribunale della propria emotività, ogni qual volta il suo inconscio fosse messo
in allarme per ragioni oscure. Per questo aveva tentato in tutti i modi di
arrivare con un quarto d’ora di ritardo, per trovare la scena già apparecchiata,
ma come al solito alla fine non ne era stato capace ed era arrivato puntuale,
come sempre.
Non
sapeva capire quale piega avrebbe preso la serata, quali nuove logiche
relazionali si sarebbero istaurate, quali dinamiche sarebbero tornate ad agitarsi
dopo tutti quegli anni, quali ferite non ancora asciugate si sarebbero fatte
sentire nuovamente, se adesso avrebbe tollerato gli atteggiamenti di qualcuno, che
francamente non sopportava. Se avrebbero sopportato le sue di intemperanze. Di
tempo adesso ne era passato. Peter non era sicuro di quali persone avrebbe incontrato
quella sera sotto il camuffamento degli anni. Lui stesso sentiva da qualche
anno affiorare piano dalle zone più lontane della propria coscienza, come una perfida
umidità che con lentezza estenuante salendo dal terreno divori le pareti, una tristezza
di fondo buia e pervicace. Gli anni che passavano inesorabili, aggiungendosi sempre
più e spingendosi l’un l’altro con una concitazione meschina e triviale. Il lui
che gli era attorno, il suo involucro di carne, le sue manie, la sua
insoddisfazione erano cresciute su di lui mostruosamente come un tumore, a sua
insaputa. Forse non aveva ormai nulla da dire a quella gente, a nessuno, tranne
che a Giovanni, un compagno, un fratello d’avventura che aveva trovato e
riconosciuto il primo giorno di scuola, non smettendo mai di frequentarlo in
tutti quegli anni.
Peter
era arrivato a pochi metri dal marciapiedi del ristorantino ed allora
all’ultimo istante, senza poterlo prevedere, gli era fiorito sulla bocca un
sorriso imprevisto, pieno di gioia verso quei visi che in quell’istante aveva
ricordato di amare. Nel frattempo erano arrivati gli altri e si era andati
dentro perché il vento e il freddo pungevano forte.
Ce
n’erano stati di incontri, uscite, cene negli anni passati. La prima vera
rimpatriata però era stata a quindici anni dal diploma. Quindici anni,
l’intervallo giusto tra il futuro che si era dischiuso davanti a loro, sconfinando
incontaminato davanti alle loro vite e le prime tappe raggiunte, le gratificazioni
concrete da adulti. Quella volta i compagni ritrovandosi avevano reciprocamente
preso atto di non essere più ragazzi e di avere acquistato la fresca fierezza per
quello che erano diventati, giovani medici, architetti, professori, funzionari,
consulenti. A nessuno probabilmente era stata negata in quegli anni la propria
realizzazione, a patto che avesse avuto il crisma della fattibilità. Finalmente
si era qualcosa nel mondo dei grandi da coagulo incerto di desideri che si era
stati. Alla rimpatriata erano andati in tanti, non tutti. Di qualcuno, dei vecchi
compagni che arrivavano dalle lontane periferie della città o dai paesi per
esempio, si erano perse le tracce. Di quel gruppo Peter serbava un’unica immutata
immagine, quella di ragazzi timidi, appartati, che si erano relegati
spontaneamente nei recessi della classe, senza che mai nessuno in tutti quegli
anni ce li avesse mai messi. Erano rimaste nella sua memoria figure teneramente
dimesse, sbiadite, contornate da un’aura di umiltà e rinuncia, una rinuncia
volontaria e atavica a mettersi in evidenza, in qualsivoglia campo, una
rinuncia che giungeva fino a quegli anni ’70 dalle lontane tenebre della
società premoderna. E anche nelle
relazioni sociali si distinguevano, facevano fatica a mescolarsi agli altri degli
altri quartieri. Ricordava le compagne di quel gruppetto: certune indossavano
ancora le gonne ben stirate, dieci centimetri troppo lunghe e borse di pelle,
come si usavano dieci anni prima, non i jeans sdruciti e i tascapane di tela delle
altre. I maglioncini, le camicette, la pettinatura erano sempre da madri di
famiglia, quasi sempre fuori moda o comunque non in sincronia col tempo. Lo
stesso si poteva dire di Mimmo, un tipo che arrivava da un paese vicino, venendo
spesso a piedi dalla stazione. Un ometto fatto a quattordici anni, robusto,
sonnolento e dai passi lenti. Veniva a scuola sempre in giacca e pantaloni
scuri. Era un ragazzo della campagna, autentico e puro come ce n’era; i
compagni avevano fatto presto ad amarlo, lui e con tutto il suo mondo di tanta terra
e passi che si portava dietro. Poi però fuori dall’aula, i ragazzetti bene o i
borghesi di via Libertà, vedevano dimenarsi pigramente per la città un
contadino che si era dato una pulita e malamente si era vestito a festa.
Probabilmente la sua figura si collocava automaticamente ai margini della città.
Di quei margini pareva pure cosciente, anzi sembrava che dentro a loro avesse deliberatamente
accettato di starci.
Ad
ogni modo chi era venuto a quella prima cena aveva rivisto gli altri con un
entusiasmo sincero; ognuno curioso di capire come l’altro fosse uscito dal
pantano dell’adolescenza. Peter era andato carico di gioia, di una feroce nostalgia,
di tenerezza, di voglia di riscatto. Si riscattava da una adolescenza fatta di incomprensione,
di desideri irrealizzati, frustrazione del suo vero se, di tenerezze
inespresse. Se tirava le somme il saldo adesso però era quasi tutto dalla parte
dell’avere: alla cena ci era venuto con la sua auto, senza la preoccupazione
del rientro, arrivando dalla casa appena comprata, avendoci lasciato una donna,
la sua. Dentro quella prima serata aveva portato intatta quella sfumatura
d’animo dal fascino indescrivibile. Lo spirito autentico delle rimpatriate, andare
e trovare accanto negli occhi dei compagni, come in una incredibile macchia del
tempo, due esseri di due epoche lontane: il te dell’epoca della scuola e quello
di oggi e intenerirti a guardarli assieme. Quella volta lo spazio degli
abbracci, sinceri, grati, - un riscatto di quanto stentatamente ricevuto in
passato - aveva occupato due lunghi segmenti, l’incontro e il congedo. Durante
la cena molti per un po' erano stati troppo presi dallo sbalordimento, dallo
stupore dell’essersi ritrovati per dire con ordine gli avvenimenti degli ultimi
anni. Poi qualcuno aveva preso a raccontare cosa era diventato in quegli anni fervidi.
Mentre gli altri narravano Peter si era accorto con sorpresa che per più di uno
le relazioni sentimentali si erano rivelate nel corso del tempo un groviglio inestricabile
di difficoltà e spinose contorsioni. Un incubo, a volte, nel quale non
avrebbero mai voluto entrare. Tre o quattro delle compagne si erano già separate.
Erano loro le protagoniste degli sviluppi narrativi più efficaci. Chissà perché
pareva che le storie finite male recassero nel racconto una necessità, una
chiarezza dialettica più forte. Peter e Pippo avevano poco da dire:
all’apparenza matrimoni regolari, stagliati sullo sfondo azzurro di un
paesaggio senza una nuvola. Di altre assenti si sapeva. Di qualcuna assente si
raccontava che non si era ancora sposata o che alternava ad una scontrosa indipendenza
relazioni complesse ed effimere. Per i ragazzi degli anni ‘60 era ancora
inconsueto pensare che a un certo punto della vita non tutti si fosse ancora
arrivati all’approdo naturale del matrimonio.
Peter
non era riuscito per tutta la serata a cacciare via dalla sua mente un
sottofondo continuo di fastidio; si era posata su di lui un’ombra di
sorvegliata e inconfessabile gelosia per i legami vissuti dalle sue compagne, per
quelli in corso e anche per quelli già spezzati, come chi, ancora segretamente
innamorato di tutte, senta quasi di avere perso per sempre un antico diritto
esclusivo su ognuna di loro. Un amore incestuoso forse, e proprio per questo
potentissimo.
Dopo
quella serata si erano persi di vista. Manuela, la pasionaria dell’unione di
classe, aveva continuato a frequentare Francesca, il cui successo nel lavoro
era stato tanto clamoroso quanto rovinoso il dissesto del suo matrimonio. Era
stato con lei dopo un po' di anni, con l’avvento dei social, che aveva avuto
l’idea di creare un gruppo virtuale e poi, a trenta cinque anni dal diploma, era
riuscita ad organizzare un'altra cena, ripromettendosi di generare altre occasioni
d’incontro a scadenza più ravvicinata, strappando a tutti di impegnarsi in
questa cosa. Le prime cene del nuovo corso erano state frequentate
irregolarmente da alcuni compagni. Poi una volta Manuela aveva fatto sapere che
stava organizzando una rimpatriata per una occasione speciale, dalla quale
nessuno avrebbe dovuto chiamarsi fuori. Erano passati trentotto anni dal
diploma. Tutti, quelli almeno che avevano tenuto i contatti in quegli anni, avevano
risposto all’appello e ora erano là per ritrovarsi, in quel locale perso nella
indeterminatezza della periferia palermitana tra la salsedine del mare e le colline.
Intanto
si era deciso che si aspettassero gli altri dentro che faceva un freddo cane.
Gli altri erano arrivati poco dopo, un po' alla spicciolata. Rosa, Francesca,
Paola, Sabina, Roberta, Virginia, Martina, Pippo e Giovanni. E poi era venuta
Serena. Peter non la vedeva da più di trent’anni. Quando era entrata aveva
faticosamente intuito chi fosse dipanando velocemente gli innumerevoli strati
di chelophan che i decenni avevano avvolto attorno alla sua identità. La sua
compagna si intravedeva adesso a poco a poco. Si erano salutati con un
trasporto autentico, intimo. D’altra parte nulla è più vicino alla
consanguineità – benché impura - dell’essere cresciuti vicini per tanti anni. Poi
si erano sistemati accanto, in fondo alla tavolata. Peter era spaesato. Chi era
quella affascinante cinquantacinquenne che gli sedeva accanto? Aveva fissa in
mente la simpatica ragazzetta buffa di diciotto anni, dai contorni irregolari,
dalle spalle piegate da una leggera scoliosi e il viso sorridente, perso tra
una foresta disordinata di riccioli ambrati. Era diventata una donna dalla
bellezza discreta e levigata. Non appariscente, ma certamente si poteva dire
che almeno per lei il tempo fosse stato un alleato più che un avversario. Adesso
la sua figura pareva più affusolata ed armonica di una volta, i lineamenti del
viso, una volta paffutamente tondeggianti, avevano assunto un andamento deciso
ed una luminosità regolare; il trucco leggero, la pettinatura, il sorridere
composto, l’abbigliamento adeguato ne facevano un esempio compiuto di metamorfosi
in una donna dal fascino equilibrato dove, come nell’arte di Fidia, nulla
spiccava in particolare se non l’insieme.
-
Non ti vedevo dai tempi della scuola.
Sei una bellissima donna ora, sai? – fu l’unica cosa che gli venne da dire, ma
se ne pentì quasi subito.
-
Grazie, sei buono - gli rispose Serena ignorando la portata
involontaria della potenziale gaffe.
-
Mi sei mancato – aggiunse lei e gli si
abbandonò in un abbraccio caloroso, di una confidenza dolente. Si accorse che i
suoi occhi si erano arrossati. – Dovrei raccontarti, sono successe tante cose; ho
avuto un figlio, grande sai, un marito, ma è finita presto. Adesso ho un
compagno, un buon uomo, sto bene, ho trovato la mia serenità. Ora vediamo di
non perderci più di vista – Fantastico: trentotto anni detti in tre frasi!
Ora, dopo lo strascico degli ultimi saluti si erano
sistemati tutti attorno al tavolo. C’erano
l’ingegnere, il consulente, i professori, le architette, la dottoressa, la
funzionaria, non i piccoli compagni del ginnasio. Virginia si era seduta quasi
di fronte a Peter. Vicina, ma mai troppo, a due passi, mai accanto. Questo era
stato ed era rimasto il perfetto emblema del loro rapporto. Quello cioè che lui
per un tempo illogicamente indefinito aveva sperato che diventasse e a cui lei ripetutamente
aveva negato ogni possibilità, restando però sempre alla portata del suo
sguardo per potere continuare a rifiutarlo in eterno.
Dopo il protrarsi estenuato dei convenevoli il
gruppo si era frammentato nelle conversazioni a due o a tre. Giovanni, Sabina e
Martina; Pippo e Virginia; Serena con Peter e Roberta; Paola parlava un po' con
Manuela un po' stava per i fatti suoi. Peter aveva parlato un po' con Martina,
con Paola, con Serena soprattutto, non ignorando di cercare la conversazione
anche con Francesca, il cui carisma quasi esigeva di cercare un confronto. Era
un po' esitante però sulla condotta da tenere con lei e con qualche altro. Si
era riproposto sin dall’inizio di essere cauto, di evitare gli scontri verbali
– quanti ne ricordava con Francesca, con Manuela, con Pippo a scuola! – Si era imposto un atteggiamento fraternamente
ecumenico e quindi spesso se ne stava ad ascoltare le conversazioni degli altri,
intervenendo raramente.
Aveva notato che anche Francesca aveva rinunciato a
certi suoi modi categorici, alle chiuse spietate e definitive. In qualche
occasione gli era parsa a volte timida, quasi rinunciataria, malinconica forse.
Chissà, pensava Peter, che stasera non abbia dato anche lei una regolata alla
propria indisciplina caratteriale. Peter ne aveva un po' pena: un leone triste
ti preoccupa più di un leone che ruggisce.
Paola sembrava invece sempre la stessa. La ragazza
migliore del mondo, sincera e disponibile, tranne che nei momenti, frequenti per
la verità, in cui esigeva di avere ragione per forza e così per avere ragione si
incaponiva con una puntigliosità esclusiva in dei cul de sac logici nei quali
solo lei che c’era entrata sapeva uscirne vincitrice. In quei casi, solo che le
si obiettasse contro qualcosina, finiva per invilupparsi senza motivo in una un’ostinazione
aprioristica piccata e in definitiva assolutamente priva di ragioni.
Il carattere, il modo di stare al mondo di Martina
erano rimasti uguali a tanti anni prima, restava la manifestazione visibile della
vita pacificata. Il punto di approdo dopo ogni dissidio. A guardarla bene
sembrava avere l’aspetto tranquillo e rilassato di chi ha da poco risolto un
grosso problema esistenziale e adesso, dopo essersi sciacquata la faccia e
rassettati i capelli, può finalmente sedersi a tavola con gli amici. Peccato
che non si capisse mai quale fosse il suo preciso punto di vista sulle cose. Parlava
di cose, esperienze quotidiane, dei figli, del lavoro, delle sue vacanze al
mare, senza mai esprimere un’opinione, dare una lettura degli avvenimenti, una
soluzione. Peter ogni tanto buttava addosso a Virginia occhiate in tralice, mentre
parlava con Pippo, che sembrava sapere sempre quale posizione assumere o consigliare
sugli avvenimenti piccoli o grandi del vivere, anche quando non sapeva
esattamente cosa dire. Neanche lei, come Martina, in fondo sembrava avere
posizioni profondamente sue sulle cose. A ben vedere la tavola pareva divisa in
due parti nettamente distinte: quella di chi aveva sempre un’idea convinta sui
principi della vita, sostenendoli con acume, ma anche con modi perentori e
quella di chi credeva che la profondità delle cose si risolvesse nelle singole
infinite manifestazioni, magari all’apparenza insignificanti, dell’esistere
quotidiano.
Idealisti vs esistenzialisti: ancora una volta ecco
la questione. Virginia apparteneva per forza al secondo insieme. Doveva essere
una donna che si lascia svogliatamente coinvolgere da qualcuno più determinato,
sfuggente per lo più ad ogni giudizio. Sfuggente custode della propria
vulnerabilità. Andava dietro ai discorsi di Pippo assecondandolo con eleganza, senza
contraddirlo mai veramente. Poi rispondeva alle domande personali con
discrezione, senza né concedere troppo di sé né usare sgarbate reticenze. Mai
nulla che lasciasse trapelare qualcosa di profondamente personale. Che cosa
strana e idiota, essere stato per tanti anni innamorato di una donna di cui non
aveva capito praticamente nulla, rifletteva Peter. E forse proprio in quell'attimo
Peter Morelli realizzò di colpo qual era stata la semplicissima ragione della completa
impossibilità di un suo successo in tutti quegli anni. Si era sbagliato, la
ragazza che lui pensava di amare non era Virginia, una donna di cui non aveva
capito praticamente nulla: semplicemente non era mai esistita.
Dopo gli antipasti nell'attesa delle portate intanto
si era bevuto. L’alcool scarsamente sostenuto dal cibo adesso aveva consegnato tanti
ad un abbandono placido. E più di tutti Peter. Dal tavolo alle sue spalle due
coppie di fidanzati trentenni parlavano e ridevano con voce tintinnante.
Parlavano del futuro, di quante cose avrebbero fatto insieme le due coppie di
amici, un lungo quasi interminato sentiero di gioie da raccogliere. Un pensiero
amaro lo prese: per quanti anni di preciso quei ragazzi pensavano che avrebbero potuto frequentarsi? E se avessero smesso di farlo per un po' di tempo avrebbero poi
avuto la forza di rivedersi sbattendosi in faccia il tempo trascorso come uno
straccio consumato?
Peter sentiva che la rilassatezza soffice
dell’alcool ora lo pervadeva. Si era messo dritto, con la schiena perfettamente
aderente allo schienale, abbandonandosi completamente a contemplare lo
spettacolo della serata che si svolgeva attorno a lui, lontano da tutto, con un
fare blandamente ozioso o distaccato, guardando tutti, se compreso, dalla
dimensione del puro compiacimento.
Guardava
Martina davanti a lui; si sforzava di trovare la figura della vecchia compagna di
scuola, ma davanti a lui c’era l’evidenza di una donna stanca, dai volumi morbidamente
arrotondati. E al posto di Sabina, che pure aveva mantenuto una forma invidiabile,
ecco una signora le cui orbite sprofondavano in profonde cavità scure. Al posto
di Paola invece c’era una figura matronale dalle carni amabilmente mature, i
seni si erano fatti opulenti, le cosce piene, una sensuale donna che offre involontariamente
la sua carnalità muliebre, non la sfuggente e nervosa liceale del secondo banco
a destra. E di sé stesso cosa avrebbe detto, se si fosse guardato? Ecco un
ometto di mezza età con un occhio mezzo chiuso, ingrigito e malinconico, con la
consueta pancetta del borghese arrivato, uno che ha appena messo in soffitta la
sua gioventù.
Da
quella prospettiva straniata adesso vedeva tutto così com’era, al netto dello
smisurato affetto che sentiva per loro. Su quella tavolata si era posata
l’ombra sbiadita dei ragazzi scintillanti di gioventù e traboccanti di luce che
aveva conosciuto; vedeva invece i loro spettri, i simulacri di un passato
persino incredibile, dei pingui, torpidi e teneri ultra cinquantenni, lontani, ormai
adagiati su di un risvolto comodo della vita, strappati per qualche ora all’insensata
necessità delle incombenze quotidiane e che adesso teneramente cercavano di
inerpicarsi a ritroso, per quanto è possibile, sulla parete scivolosa del
tempo, tenendo però forte anche la fune del presente. Che non si sa mai, che
non si perda l’uno e l’altra e si finisca inesorabilmente alla deriva.
Le
portate erano arrivate tardi, e quindi erano state consumate con una certa
frugalità. Ognuno aveva da tornare presto da un marito, da una moglie, da una
figlia, da una madre sola, alla sua irresolutezza. Qualcuno si alzò e diede
l’avvio al rito dei saluti. Fu allora che Manuela fece un deciso cenno col capo
a Francesca. Lei allora con uno slancio, che sembrò subito carico di un’urgenza
angosciosa, scattò in piedi e rubò l’inerzia a chiunque volesse fare o dire qualunque
cosa. L’ora sarebbe rimasta sospesa per il tempo che fosse bastato. La luce dei
neon aveva plasmato i volti immobili in impassibili volumi di cera giallo
pallido e allora Francesca parlò con una voce sollecitata a precipitarsi fuori
da un assillo che premeva – Lo dico a voi per primi: ho avuto un cancro. Ho
vinto io. Ora ne sono fuori. - Il fotogramma riprese la sua corsa, la scena il
suo andamento, il tempo il suo sviluppo. Ci furono abbracci commossi, devoti,
tanti, a Francesca, o a chi era vicino; chi si commosse, chi emise interiezioni
di stupore, chi restò in una immobilità attonita. Nessuno però disse una frase,
nulla. Qualunque parola sarebbe nata morta e subito avrebbe imputridito là, davanti
a tutti. Peter strinse forte Paoletta che gli era accanto. Poi li guardò ancora
con gli occhi puliti dalle lacrime, loro e se stesso. Erano ancora una volta
tutti là, erano sempre quelli: la quinta D del ’78. Il tempo dopo tutto, dentro
alla sedizione compiuta dagli anni, li aveva lasciati intatti. I ragazzi
vulnerabili, affamati di amore e in cerca disperata dei compagni, per sopravvivere
al naufragio.
Proprio
in quel momento, dopo tanti anni, Peter, risalendo fin alla essenza infinitesimale
ed irriducibile del suo senso, comprese davvero la parola “compagno”.
Tutti
sentirono che a quel punto la serata avrebbe dovuto avere il suo opportuno
termine. Non occorreva che durasse un attimo di più. Così uno salutò in fretta
e andò via. Poi si uscì tutti fuori dal locale e presto il gruppo dei compagni si
sciolse con abbracci pieni di una malinconia sorda, intensi e sfolgoranti, che come
fuochi d’artificio si spensero nell’arco di pochi attimi. Dopo, in breve, tutti
svanirono, come in un sogno. Peter era rimasto solo, a guardare la notte.
La
luna più grande e luminosa dell’anno brillava d’arancio, con una evidenza piena
di una vanità incongrua, come una vecchia ruffiana imbellettata per l’amante
che non arriva.
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