di Enzo Barone
Ammettiamolo serenamente: chi di noi (soprattutto tra gli over quaranta) non ha pensato ad un certo punto, almeno una volta, che vivere a Palermo
è una sfida, una provocazione disperata, una scommessa con sé stessi, una
malattia. Che solo l’insania di un amore sviscerato (e per questo ancora più
assoluto) e alcuni suoi doni inimmaginabili
possono giustificare, rendere comprensibile. Come quello per una donna bellissima e
perduta che ti condanni ad amare fino alla tua (ed alla sua) fine.
Sei in un giorno qualunque di ordinaria dissennatezza: ecco
ad esempio ti intruppi in una civile fila in via La Malfa, dietro ad alcune
pazienti auto in attesa di imboccare ad una ad una uno stretto sotto passaggio
per svoltare. Le macchine da principio non sono nemmeno troppe e la civile fila
regge per un po’. Ti chiedi se ancora stavolta sarà come sempre; ti illudi magari.
E invece capita ogni volta. Ce ne sono
alcune, mai troppo poche, che si accostano, ti sopravanzano piano piano, eludendo
la tua disciplinata attesa in fila. Butti l’occhio e c’è sempre lui (ma anche
lei): il braccio appoggiato sul finestrino aperto, lo sguardo placido,
innocente, perso nell’orizzonte beato della strafottenza, della serena e
indifferente vita del maleducato. Sembrerebbe la persona più indolentemente
pacifica del mondo. Poi nel momento fatidico, con scaltrissima arte
dissimulatoria, ecco che l’incivile manifesta il suo vero volto, esercita il
suo diritto, impiega il suo indiscusso talento predatorio: ti supera, ti frega,
passandoti davanti ed avviandosi prima di te verso lo stretto passaggio. Come
se dovesse per forza andare così, come se questo fosse un suo sacro diritto,
acquisito, legittimato dalla incombenza, consacrato dalla stessa furbizia del
gesto, come se lo stesso numero di tutti quelli che in quel momento eludono le
regole automaticamente sanasse il dolo. Tutto sembra quasi giustificabile dalla
semplice ineludibilità della contingenza del gesto. Sono qua ormai: che dovrei
fare? tornare indietro? Vuoi scherzare, passo!
Così, si sa, ogni giorno: in auto, al bar, in
fila ad uno sportello, sull’autobus, nei parcheggi, sulle strisce pedonali o nelle
corsie d’emergenza, benché meno che in passato, sebbene le cose un pò
migliorino (con la solerzia dei bradipi). E quando capita di dover soccombere
allo scaltro di turno tu, che sai di essere nel giusto, che vorresti farti
forte del tuo diritto discendente dalle leggi e dalla affermata universalità
della buona educazione, devi ogni volta prendere una decisione, devi scegliere.
Protestare civilmente o accettare passivamente? Urlare ed incazzarti o educare
pazientemente il tuo prossimo con utopica pedagogia? Oppure? Fare come tutti
gli altri. Ma ogni scelta è un errore, una sconfitta, comunque un dissesto
morale del tuo io. O più semplicemente una frustrazione.
Talvolta, una due volte l’anno - di più aumenterebbe troppo
il rischio di liti dalle conseguenze imprevedibili – scelgo di esercitare il
mio buon diritto che discende dalla legalità e decido di smettere l’ignava
rassegnazione degli onesti. Allora tiro giù anche io il finestrino, rivolgo con
decisione lo sguardo verso l’ineducato, tendendo con calibrato sdegno nella sua
direzione il braccio destro col palmo aperto, in un largo e plateale gesto di
eloquenza declamatoria, in atto di riprovazione, al quale farò seguire pronta,
opportuna espressione di secco e giusto sarcasmo. Ma ecco l’incivile mi sorprende,
mi precede e al mio gesto ancora nel suo sviluppo risponde con un sapiente e
retorico ruotare del suo destro rivolto all’assembramento caotico di auto per significare:
“Che traffico, minchia, vero compà?” Così mi io smonto, si destruttura la mia
civilissima rabbia e torno a guidare.
Ora che ci penso è un deja
vu, un ritorno di memoria: tante altre volte accade. Anche in altri
contesti o situazioni il mio gesto allusivo di sardonica condanna è stato male interpretato.
Il mio inurbano (per me) interlocutore in realtà leggeva o cercava in me la
condivisione della sofferenza cui tutti a Palermo siamo condannati, oppure una
innocua chiamata in una correità non cercata, ma ben trovata - capisci: agisco così come faresti e hai
fatto tu tante altre volte -; insomma la furbata, l’inciviltà come indispensabile,
innocuo viatico per sopravvivere qui da
noi, come tutti, o i più almeno. Molto semplicemente ancora una volta mi capita,
devo ammetterlo, di essere sorpreso nel costatare la purissima, santa ignoranza
della colpa e del male degli incivili. Lo sguardo rassegnato e di candida
innocenza del vicino di fila, del automobilista che ti ruba il posto con destrezza
o del cittadino che si avvantaggia iniquamente a tuo danno è sempre questo. Sono
quasi sempre nella pace di chi non conosce l’errore. Non potrebbero mai
sognare, immaginare di potere essere additati e riprovati per qualcosa la cui
colpevolezza gli è spesso del tutto ignota? Insomma la colpa esiste solo come
consapevolezza della sua esistenza e del suo compimento, mi verrebbe da dire.
Così alla fine ti risolvi a proseguire verso casa un po’
stordito, preso sempre più da uno straniamento esistenziale: è indubbio sei tu
fuori dal mondo, sei tu che ragioni male, che non stai alle regole del posto
(pur essendoci nato). Probabilmente hai sin da principio sistemato molto male
l’alzo del cannone della tua civica riprovazione; devi deciderti a ricalibrare
una volta e per tutte il sistema dei valori di riferimento di questa città: non
ti sei ancora reso conto che al peggio vivi in una città di incolpevoli
anarchici, di candidi selvaggi. Un luogo irredimibilmente non riducibile a parametri
europei, semplicemente con altre logiche, altre istintive leggi di
sopravvivenza. Forse addirittura potresti alla fine pensare alla maggioranza
dei tuoi concittadini come a degli eroici combattenti nella giungla del si
salvi chi può, nella frontiera dei senza legge. Non è possibile - convincitene
una volta per tutte - pensare a come dovrebbe essere questa tua adorata città, col
corso previsto e regolato delle sue norme condivise, con le sue ordinate prassi
di convivenza, con la civile neutralizzazione sociale degli impulsi e dei
tornaconto individualisti. In fondo la realtà, questa, così com’è, giustifica
se stessa da sola e dà sic e simpliciter senso alla propria fenomenologia.
Si dà un’etica e una logica da sola, inevitabilmente. E tanto basta.
Palermo è un inferno? Ma l’inferno esiste solo per chi ci
crede e ne ha paura, diceva genialmente De Andrè. E non era neppure di Palermo.
Palermo è un inferno. Oppure è un mondo parallelo all'inferno, come la follia è uno stato parallelo alla lucidità, con una logica tutta sua, regole proprie, anzi totale assenza di regole; un caos che si pone non come preludio a un ordine nuovo, più buono e più giusto, ma come caos fine a se stesso. Con una sua bellezza, tuttavia, con un suo fascino: quello del "genio" e della sregolatezza. Bravo Enzo per l'analisi attenta e lucidissima.
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