di Enzo Barone
Lo aveva detto bello chiaro, sputando
fuori gli occhi dalle orbite, là davanti a tutti sulla pubblica piazza, nel
rovello delle dodici di un mattino d’agosto: “Dev’essere solo. Nessuno ci deve
essere. Nuddu, nuddu, manco un cane l’avi accumpagnari!” Quelli che prendevano
il fresco sotto il platano, i due o tre che giocavano a zecchinetta, Lillo
Monastero e Mariano Virgadamo appoggiati alla ringhiera del belvedere, Vanni Senzacammisa
e perfino Ninì il filosofo smisero per un attimo di essere una parte inconsapevole
del panorama e guardarono Tano come storditi. Nessuno osò dire nulla in
risposta. Troppo perentoria e feroce era parsa la prescrizione di quel divieto,
che appena uscito si era fatto sulle sue labbra pronuncia di una solenne maledizione.
Ognuno sapeva che in questi casi era cosa saggia restare in religioso silenzio,
lasciare, che la rabbia dell’esagitato avesse compimento, più che per reale timore
del soggetto per rispettare il libero corso della sacra incazzatura.
Tutti in quell’stante avevano
riavvolto il nastro della storia di zu Binirittu Dominici, della lunga agonia e
della morte della moglie, donna Concetta Frangipane, della di lui quasi
immediata frequentazione della vedova Di Lorenzo, vicina di vanella, di come zu
Binirittu si fosse rincretinito per quella donna, tanto da chiederle qualche
mese dopo di sposarlo in seconde nozze. A tutto il paese, senza eccezioni, era
parso in effetti sconveniente, indecente, anche il solo pensare che Benirittu
Dominici, il sensale universalmente rispettato di quasi tutta la terra pattiata
e venduta e al di qua del fiume da quarant’anni a questa parte, avesse perso la
mirudda per una femmina solo pochi giorni dopo avere vestito e baciato per
l’ultima volta la fronte gelida di donna Concetta. L’averlo in tanti addirittura
poi visto entrare in quella casa due porte sotto il sabato pomeriggio per
uscirne la domenica sera, era un affare che così sporco in paese non si era mai
né visto né raccontato. Questo almeno professavano con solenne disgusto le bocche
e le lingue costumate, mentre invece le lingue dei maschi con gli ormoni a
posto si impastavano di foia e dicevano tra sé e sé, con una voce tanto fievole
che non la potesse udire neanche la propria coscienza, che la pazzia, non solo
la capivano, ma una mezza l’avrebbero fatta pure loro. Che li avrebbe stuzzicato
un fottio anche a loro potere stringere quelle cosce come le colonne di Solunto
e abbracciare un petto ancora dritto e impudente di una femmina da letto della
portata di donna Agnese Di Lorenzo. Vedova da sempre, di anni cinquantasette,
ma detentrice ancora di un imperdonabile fascino, che si edificava su un
portamento diritto e fiero, privo di falsa castigatezza, e sulle cremose compiute
morbidezze delle sue forme, cui la maturità aveva semmai aggiunto e non
sottratto un quid come di abbandono allo sguardo altrui.
Quello che faceva impazzire
ancora di più gli uomini fatti, tutti senza distinzione, era poi che la persona
era stata sempre di una riservatezza impenetrabile, quando invece tale
discrezione era tanto clamorosamente quanto involontariamente contraddetta dalla sua sensualità, incontrollabile come una senile incontinenza.
Tanti avrebbero pure affogato la moglie per potersi risposare, come Benirittu aveva in mente di fare, la Marisa Allasio del paese.
Ad ogni modo ognuno aveva avuto coscienza di come Binirittu dello scandalo ipocrita se n’era fottuto proprio. Tanto i fratelli erano tutti morti, due figli se n’erano andati da un pezzo in America e in paese, di parente stretto, non gli restava più nessuno. Tranne Tano appunto, l’ultimo erede. E giusto Tano non si sarebbe messo certo di traverso, - a parte possibilmente qualche vuciazzata scale scale: roba che si rimedia prima o poi tra padre e figlio. Giusto quel Tano che se n’era scappato in albergo a Palermo con la figlia del carrettiere e poi se l’era dovuta maritare ingravidata. Lui che all’assessorato, con la politica, con gli appalti, i voti accattati e i traffici con “certi galantuomini”, era rinomato per avene intorcolati di intrallazzi imbrogliati e luridi così tanti che manco se li ricordava. Invece Tano, una volta resosi conto della portata del possibile pubblico disastro, ne aveva fatto una tragedia. Sembrava uscito proprio di senno.
Mentre il padre camminava
strade strade col sorriso ebete e compiaciuto di chi ha fatto una mangiata coi
fiocchi e pregusta tanti altri bocconi e di ancora più sostanziosi, Tanuzzo se
ne andava in giro per il paese, sempre con la barba ispida, lo sguardo obliquo
e feroce, farfugliava imprecando da solo come un iracondo dantesco, dannato e maledicente:
si era fatto salire la pressione a mille, perché il viso in quel
periodo era rosso paonazzo e i capillari attorno alle orbite sembravano saltati
in aria tutti assieme.
Su quei pochi che erano stati
per loro sfortuna catalizzatori della suo malodire aveva riversato una piena
inarrestabile di buia rabbia. Nell’acme del dramma, che recitava ad ognuno con
identica intensità attoriale, apriva e ruotava eccentricamente le braccia e
infine protendeva il destro verso una direttrice davanti a lui, verso qualcuno
che non c’era, ma che era tremendamente presente nella sua figurazione. Quella
persona - perché zu Binirittu aveva perso ai suoi occhi anche il diritto ad
essergli genitore –, diceva, facendo vibrare la mano in violenti movimenti
sussultori, aveva disonorato la memoria della mamma, anima santa, non solo
concependo il pensiero di sostituirla nel suo letto, ma addirittura attuandolo,
trovando una sua succedanea e a così poche settimane dalla sua scomparsa,
rimbambito di un arteriosclerotico! E poi ora va sparlando persino che vuole rimaritarsi in quattro e quattr’otto con quella buttanazza in cerca di uno scimunito da pigliare per fissa. Soprattutto nei malcapitati ascoltatori alla fine si condensava la netta convinzione che per Tanuzzo la vera offesa non fosse fatta tanto al suo onore di figlio, ai suoi sentimenti verso la madre feriti, ma alla sua rispettabilità di usciere capo all’assessorato, di amico degli amici, di procacciatore di favori, di traffichino dei pezzi grossi del partito, temuto e ricercato, senza macchia e senza disonore.
E allora si era dato per
settimane all’assedio, al bombardamento alla fortezza dell’ottusaggine del
padre, attività compiuta però con manovra aggirante, per interposta persona
però, giacché ancora faccia a faccia non ci aveva ancora voluto parlare. Cosa che
vista dal di fuori pareva del tutto assurda, ma così si usava (e ancora si usa
da queste parti).
La logica contorta era: ti
lavoro intanto ai fianchi, ti logoro e alla fine ti metto contro tutto il
mondo,– perché il paese era tutto il mondo -
o per farti passare il piacere di continuare oppure per demolirti. La
ricetta era efficacissima, la macchina perfettamente collaudata; il vecchio
sentiva infatti sempre più spesso attorno a sé i bissi-bissi delle comari e i
loro sguardi in tralice, le brevi sentenze di stupore dei suoi coetanei
coppolati, che lo incrociavano dicendo “Cosa ri fuoddi…ma viri tu la stulitanza!”.
Oppure semplicemente, in faccia a lui emettevano semplici interiezioni come “Mah?”
– che con la sua intonazione interrogativa ascendente era forse la locuzione
più corta, ma anche la più grave e laconicamente sentenziosa. Per finire poi con
le battutacce più o meno sboccate sentite al bar o al belvedere. Nessuno mai però che gli dicesse bello in faccia, da amico: “Babbu, viri ca fai ‘na fissaria.”
Zu Binirittu però, circonfuso dalla beatitudine demente degli infatuati, pareva indifferente a tutto, immune ad ogni maldicenza.
E allora Tanuzzo a un certo punto si era dovuto decidere a parlargli.
Era stato un monologo infervorato, concitato, furioso, tenuto con un tono di voce decisamente sopra le righe, sciorinando tutto il repertorio della gestualità e delle formule del lessico popolare adatte alla circostanza. Ma Binirittu resisteva inattaccabile, olimpico nel suo sorriso beato a labbra appena dischiuse. Alla fine Tanuzzu o meglio, Tanazzu come sarebbe stato chiamato da allora in poi, aveva detto: “ Se non la finisci con ‘sta porcheria della zita e del matrimonio, te lo aggiuro, stanotte o una notte qualunque levo la mamma dalla cubbula dove è messa e la faccio sparire, che non saprai mai dove l’ho infilata!”
La mattina dopo, saranno
state le cinque e mezza sei, Sariddu lo spazzino, buttando un occhio sotto alla
terrazza del belvedere vide, in basso la carcassa lungagnona di zu Binirittu a
faccia sotto, col sangue che ancora sgorgava dalla testa.
Tanazzo lo andò a vedere
quando che già si trovava ricomposto e ripulito sul tavolo dell’obitorio di
Palermo, dove il maresciallo D’Aluisi volle che fosse condotto. La domenica
dopo il dottor Salvaggio, il medico del paese, seduto all’American bar, dopo
aver fatto il suo gesto, consueto anche nelle giornate gelide, di asciugarsi la
fronte, cosa che annunciava sempre l’inizio di un discorso penoso, avrebbe raccontato
che Tano nel guardare la salma del padre aveva conservato ancora il viso
paonazzo e risentito di tutti quei giorni passati. Che lui ricordasse non aveva
proferito parola alcuna, benché riferì pure che il maresciallo D’Aluisi giurava
di avere notato ad un certo punto nel viso di Tanazzo un tremito incontrollato
delle labbra e udito un borbottio quasi impercettibile che faceva:”Puru ‘stu
sfregiu; sulu chistu t’ammancava.”Quello che restava di zu Binirittu era stato poi esposto in casa sua per un giorno e una notte, - perché, Dio ne scansi, di funerali di un suicida in chiesa non se ne discuteva nemmeno - vegliato dalla vedova di Lorenzo, che pareva la desolazione di una città dopo un terremoto, da un paio di suoi vecchissimi compagni d’armi, e dal cane del vecchio, il bastardino Sfardacausi.
Era quest’ultimo il personaggio di questa storiaccia che sembrava più calato nel significato di quel dolore. Stava ai piedi della bara, la testa appiccicata al pavimento e le zampette incrociate su di essa, come fa un disperato, e quando qualcuno, senza entrare, si affacciava alla soglia per salutare il morto, emetteva un guaito accorato e delicato che scippava il cuore.
Ed eccoci al mattino quando Tanazzu aveva proferito quel monumentale divieto sofocleo: “ Nuddu, mancu un cani…all’accompagnamento du mortu!”, lasciando di cristallo tutto il belvedere.
All’indomani, nel giorno fissato – non si sa bene da chi - per le esequie funebri, il cielo era opaco di scirocco estivo, punteggiato di grani scuri, come la pula in mezzo alla farina rustica. Era così secco e caldo che respirare era una pena per dannati. La gente, quelli della strada grande e tanti di altri rioni, stava dietro alle tendine bianche traforate dei portoni appena dischiusi o con gli occhi sotto alle palombelle delle persiane piegate a metà.
Nelle orecchie di ciascuno rintronava l’ammonizione: “Nuddu, nuddu mancu un cani…”
I becchini avevano trafficato attorno alla bara in un silenzio irreale, con gesti di coscienziosa sollecitudine, perché prima ci si levava quel pensiero e meglio era. Poi la Mercedes scura era partita da casa Dominici, con appresso unicamente don Saro due chierichetti e nessuno più, ché a Agnese Di Lorenzo era stato consigliato che il morto se lo piangesse a casa, per i fatti suoi.
Nessuno appresso. Eccetto il bastardino
Sfardacausi, che guardando a destra e a manca latrava e ululava da fare spavento,
in faccia a quella comparsata di occhi, che nascosti dietro alle tende odiavano veder passare il corteo funebre dell’unico uomo
vivo in un paese di morti.
Vita e morte che confondendosi si scambiano i ruoli in una tradizione tutta siciliana che si esplicita il 2 novembre dove "la ricorrenza dei defunti" diventa "la festa dei morti". Molto bello. Salvo Barone
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