di Daniela Palumbo
Questa mia arte
instancabile,
questa che chiamano l’arte mia,
è come il mestiere antico
dell’acconciatore:
lesto,
assiduamente intento
ad intrecciare,
e a dipanare
fili sfuggenti e ribelli,
nodi ostinati e ottusi,
lenti a imbiancare nel tempo
al raggio della luna.
È come il mesto lavorio,
questo mio lavoro,
del triste precettore,
ospite e servo nelle dimore altrui,
presso le anime acerbe di chi
non ha ancora vissuto.
O come il vizio impietoso
del giocatore oscuro;
solfeggiatore del nulla
tra pause, intervalli,
e interminabili attese
dispensate, come false benedizioni,
dal sordo movimento delle mani sue.
È
come sono io,
questa mia arte;
mastro, profeta,
rabdomante
del sonno e del silenzio,
giù fino al fondo del pozzo,
questo lavoro vanamente immondo
e clandestino,
si spegnerà con me.