giovedì 7 agosto 2014

Moralia 3. Di come Platone, a sua insaputa, destò il cuore a due antichi amanti

Di Enzo Barone
A chi sa, a chi intende
Questo pezzo oggi ha come riceventi privilegiati due persone, due persone a cui voglio un gran bene e che capiranno prima e più profondamente di tutti gli altri lettori questa piccola riflessione. Oggi vorrei parlare infatti a loro con queste povere parole (e a tutti gli altri , naturalmente) di idee e di idealismo. Non di quel concetto vago di idealismo, generalmente diffuso dalla cultura di massa wikipediana , ma più propriamente di quello platonico (anche qua in senso proprio, filosofico, non nel senso popolare dell’aggettivo) .
Non è poi così complicato rendere chiaro anche a chi non mastica di filosofia – non a voi due di sicuro - cos’è l'idea per Platone. Mettiamo un uomo e una donna che si piacciono, si cercano, si desiderano, si innamorano. L’uno vede nell’altra (e viceversa) il meglio che un essere umano possa offrire: i due progettano di vivere insieme per il resto della loro vita; si sposano, fanno dei figli, vivono con impegno la vita in due.
Poi, col tempo, qualcosa cambia; i rapporti si complicano, la relazione perde il suo fascino. L’amore col tempo si incrina fino a spezzarsi.
Ecco: l’essere e il divenire, i due poli insostituibili dentro i quali si muove tutta l’esperienza umana. Quando siamo dentro al primo polo ci si innamora senza nessun motivo e mentre stiamo per essere catturati dall’altro/a sempre di più, edifichiamo di lui, nel nostro cuore, un’immagine sensuale e delicata, armonica e luminosa, dolcissima e musicale direi.  E dopo averla costruita, dopo averla sottoposta, per il periodo necessario alla cassazione somma del nostro istinto, crediamo in quell’immagine, consegniamo la sentenza alla giurisprudenza perenne del cuore. E’ più che una immagine: è un idolo. E’ di quell’uomo/quella donna che ci siamo innamorati, che ci siamo fidati, anzi ci siamo affidati, consegnati mani e piedi a quel sorriso, a quella voce, a quel profumo, al sapore di quei baci, a quel particolare timbro di voce, a quel modo di essere, di stare al mondo.
E’ il concetto dell’essere, che non può che essere immortale ed eterno, assoluto e divino.
Un’illusione? Ciò che si pone per definizione, come l’essere, fuori dal tempo non può che identificarsi con l’illusione massima e la massima verità al tempo stesso.
E poi il divenire.
Giorno dopo giorno, a volte la vita consuma quell’uomo, quella donna; la canicola del tempo ingiallisce e divora l’incanto della loro storia. Le incomprensioni, i diverbi, le scoperte intolleranze di carattere, subito e imposto, velenose e persistenti: l’intesa si consuma. Altre volte ci allontanano le tempie che si diradano, i fianchi che si impinguano, i lineamenti che si confondono, la pelle che si increspa. E forse, inconsciamente, - nessuno lo ammetterebbe – perdoniamo nell’amato più facilmente il deteriorarsi del comportamento che quello del corpo.
Sono insomma le deformazioni, le ferite che il tempo produce nell’animo e nel fisico degli uomini e nelle loro più intime relazioni, cui è arduo opporsi.
Cosa rimane dopo le alluvioni e i marosi degli anni insieme, dopo i fortunali delle molte stagioni o semplicemente dopo il quotidiano logorio della risacca sulla pietraia? Cosa di quell’icona iniziale d’uomo, di donna? 
Qui ci soccorre in senso proprio o improprio Platone. Limitiamoci per il momento alla pura sfera fisica.
Cosa si fa – se una fede molto grande non ci assiste -  quando ci troviamo davanti agli occhi nient’altro che il ricordo di una madre, di un padre disfatti dagli anni e dagli acciacchi, di una persona cara il cui corpo è stravolto pesantemente dalla malattia, davanti ad un coniuge, appunto, imbolsito, sfiorito, segnato nel volto e nel corpo dalla stanchezza e dalle battaglie con la vita? Come si fa ad amarli ancora nonostante tutto e con la stessa intensità del principio? L’esempio corporeo riesce particolarmente convincente, ma si potrebbe estendere il ragionamento mutatis mutandis  alle insidiose derive dell’animo. Se l’amore che l’ha creata è stato sufficientemente grande e convinto, rimane un’immagine appunto e cioè un’idea compiuta e definita, l’idea assoluta di quella persona nel suo stato (per noi ) migliore.
L’archetipo bello, senza difetti (o assolutamente trascurabili), reso un giorno e per sempre indenne da qualunque corruzione del divenire. L’Essere eterno cioè.
In questo senso ogni vero amore è di per se stesso sempre eterno.
Ora lungi da me il voler dare lezioni di filosofia a chissà chi, di quella morale per di più,  ma indubbiamente è il concetto dell’essere, è il valore metafisico (nel suo senso letterale “al di là della natura vivente”) dell’idea che dà ancora senso alla nostra vita. Senza di esso il mondo delle relazioni tra esseri umani, la società stessa si sgretolerebbero molto di più e più gravemente di quanto già non accada. Nei giorni bui, al di fuori dell’affetto geloso, nostalgico, appassionato e (spesso) vero per l’idea di ciò che è stata un tempo la persona amata, c’è il vuoto, il delirio del divenire perenne e senza significato. In parole povere io credo che se un momento qualunque abbiamo deciso di amare una persona, di averla amata prima ancora di conoscerla e ci siamo lasciati cadere nel precipizio inebriante, nella follia senza senso di un legame che duri, il significato di quella scelta, l’immagine di quel sentimento, identificato in quella persona, dovrebbero darci la spinta inaspettata per continuare. Ricordarsi di quanto si è amato e di chi si è amato cioè ci può aiutare a ritrovare dietro la nebbia del divenire il sentimento, l’idea pura fuori dal tempo.
So già cosa sta obiettando qualcuno dei miei diletti destinatari: tutto quello che dici è bello e nobile, ma vale purtroppo solo in linea teorica. Quando non ci si capisce più, quando la sofferenza supera i limiti, continuare è pura idiozia o peggio masochismo per te e per gli altri.
Non so dare risposte, non oserei farlo.
Penso soltanto che ci sia una sola cosa da fare: pensare con tenerezza a quell’idea antica di amore, carezzandola come con un cucciolo e rimanerle vicino il più possibile, cercando (non è facile lo so) di pesare per quanto si può le bizze, le sfuriate, le risposte sbagliate, i cattivi estri con la bonomia superiore, col sorriso comprensivo di chi sa da quale grandezza primigenia guardare i cieli grigi e le burrasche quotidiane.
L’idea sta comunque, eterna, solitaria, nella sua imponenza a sorridere dall’alto del suo cielo azzurro, a non potere comparare a sé ciò che è piccolo laggiù, ciò che le passa davanti e trascorre nei giorni.
Mi accorgo infine scrivendo che quello che dice di me qualcuno è probabilmente vero, e cioè che sono un idealista senza rimedio. E che il mio è pensiero debole, perché si potrebbe rivoltare esattamente senza fatica, conducendo invece il filo del più pervicace cinismo. Cioè che son tutte balle, che il vero amore se esiste è un fenomeno biochimico di breve aspettativa e che prima o poi si cambia tutti, irrimediabilmente e che di vita c’è n’è una sola e non si può sprecarla con la persona (diventata) sbagliata.
Nulla da obiettare.
Tra i due modi di ragionare c’è una sottilissima essenziale differenza: quella che separa la fede – in qualunque cosa vogliate, beninteso - dall’agnosticismo.
Bisogna credere per amare a lungo; bisogna amare credere.
Bisogna crederci.
Con disperazione.
Per quanto è possibile.

1 commento:

  1. d'altra parte la giocasta di sofocle sussurra:
    eikè cràtiston zèn, òpos diùnaitò tis
    better to live by chance, as everyone can
    meglio viver a caso, per quello che si può

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