lunedì 18 agosto 2014

La barca

by Rosalba Morici

La luna al crepuscolo della sera continuava a illuminarla: era rimasta laggiù, solitaria e inutile per tutto il giorno, come un relitto abbandonato, che le dicerie rendevano misterioso. Sabato sera al nostro arrivo, vagavamo tra le pietre di Torre Salsa che in alto spiccava scura, la punta aguzza e imponente, contro il sole appena tramontato. La roccia bianca dava ancora luce ai nostri passi e alle parole: una mamma col suo bambino vagava come noi e ci raccontò di strani rumori notturni, di fari accesi, forse di fughe: pare che ci sia stato un approdo... un barcone... vestiti sparpagliati. In quelle parole desiderio di capire e di capirsi, di accoglier le paure e di sentirsi vicini. Al mattino mi misi in cammino, curiosità o bisogno di vedere, di sentire...gioia di essere in quel posto, a me noto solo per averne sentito parlare, ma non proprio nuovo per le lunghe distese di sabbia, fina e dorata... e gioia di esserci, quasi per caso, desiderio di immergere i piedi in quell'acqua cristallina, pensata fredda, comunque bianca qua e là come la roccia che vi si riflette. Camminai a lungo: il fondale sabbioso si interrompeva e si intravedevano scogli, piatti, scuri, che a scala si perdevano nel mare più profondo.



Ora si intravede una secca e immagino, per averlo tante volte provato, che per arrivarci bisogna nuotare senza toccare.
Una colonia di gabbiani ricopre la parete bianca della marna che scivola fin sulla sabbia rompendosi qua e là in massi più o meno grossi, che ancora riecheggiano il rumore della loro caduta. La barca si avvicinava, ne distinguevo ormai i colori. Il dondolio delle onde lasciava presagire che, libera, se ne sarebbe andata per solcare di nuovo quel mare da cui era arrivata. Nessun rumore, nessuna voce, nessun comando però che facesse pensare che questo sarebbe avvenuto di lì a poco.
I miei piedi lasciano impronte sulla sabbia e si sovrappongono ad altre impronte, più piccole più grandi, alcune cancellate da onde più audaci, altre ostacolate da conchiglie e pietruzze, che finalmente hanno trovato uno spazioin cui potere riposare.
Abbandonati, un paio di scarpe da ginnastica verdi e blu dentro un sacchettodi plastica, un paio di jeans, forse anche una maglietta affondata nella sabbia.Un granchietto vorrebbe sfuggire alle onde e segna col suo passo traverso la battigia. Mi fermo a guardarlo: è piccolo e verde. Cerca il mare o vuole evitarlo, sembra libero di scegliere!
Un paio di “infradito” di plastica, come quelle dei mercatini, due lenti scureche hanno perso i loro occhiali e finalmente sono qui, davanti alla barca:bianca, come dipinta di fresco, continua a dondolarsi, sola, fra scogli che lehanno impedito forse la navigazione. Le poseidonie ne accarezzano la carena: rimango a guardare, stupita, pensierosa, non so per quanto tempo; sono assorbita da quel dondolio, mentre il sole si alza nel cielo e zittisce le voci concitate, l'affanno; quanti siamo? quanti sono? Soltanto lo sciabordio delle acque risponde.

I miei piedi sprofondano nel fango argilloso che la marna ha depositato; sonotinti di grigio quando riprendo il mio cammino sulla battigia, attenta ora a cercare ogni minimo segnale, qualcosa che parli al mio cuore, mi rimandi a me stessa mentre voglio vedere leggere capire . E i segni non tardano a farsi notare di nuovo: uno zainetto rosso con le fibbie chiuse, un paio di pantaloncini che l'acqua, la salsedine, la sabbia, ancora fanno dire bianco a grossi disegni azzurri, una scarpa di donna e poi indumenti e indumenti, e poi scarpe e una cintura, uno zainetto e un altro ancora, tutto ammollato nella sabbia abbandonato in una lunga fila, forse di disperazione e paura, in una notte di salvezza, di incertezza, di caparbietà.
La barca è di nuovo lontana: mi volto a guardarla e mi stupisce quanta strada ho percorso; due ragazzi giocano col fango e si tatuano le gambe, i seni, i visi; è un bel gioco apparire col corpo scuro, quasi nero. Il sole ammicca alto nel cielo e il mare ne rifrange a mille a mille i suoi raggi. Una conchiglia a vermetide mi colpisce: non mi pareva di averne mai viste qui; sono curiosa, forse un paguro l'ha adottata come sua casa? Sento di non potermi distrarre in una ricerca che in questo momento non mi appartiene… Che cosa mi appartiene? … Più avanti, la spiaggia si restringe; un masso sembra voler nascondere qualcosa di inatteso: ancora una maglietta, rossa, una fila di pietre in cerchio attorno ad una pila di pietre: un gioco forse, come tanti altri?
Luoghi e spazi diversi... di un tempo vissuto in allegria, nella fatica che imperlava le nostre fronti e appagava la nostra ricerca: pietre impilate in colonne, alte o meno alte, spesso vicine l'una all'altra e sempre là dove il
sentiero si era fatto più difficile, scosceso o ripido, dove i sassi rallentavano il nostro cammino e la nostra mente si chiudeva in interrogativi senza risposta Luogo di riposo? di meditazione, o piuttosto desidrio di comunione comunicata: perchè ci sono... che cosa voglio... dove vado… ! Il paesaggio poi si apriva finalmente a un nuovo orizzonte e improvvisamente ci apparivano altri pellegrini che avevano superato le nostre stesse difficoltà e ora leggeri scivolavano lungo il sentiero. Anche noi avevamo posto la nostra
pietra, pensando a chi avesse iniziato quella costruzione, a chi nel tempo l'avesse contiunuata. Ogni volta che avevamo partecipato a questo, che poteva apparire soltanto un gioco, ci sembrava di partecipare ad un desiderio che in qualche modo percepivamo come nostro. Costruire, andare avanti, superare le difficoltà e raggiungere Santiago, la meta.

Cerco una pietra piatta bianca sottile: potrei lanciarla sul mare e vederla scivolare a fior d'acqua una due tre volte, in un gioco che mi appassiona quando il mare sfiora lievemente i miei piedi e mi sento in pace con la natura e con me stessa. Con attenzione la poggio sulla pila già iniziata e spero: non so neppure che cosa. I miei piedi sono all'asciutto e io sono incapace di capire, impotente, lontana da realtà che mi interrogano e mi turbano.

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