giovedì 12 luglio 2012

Te Deum Gaeta


di Raimondo Augello
L’evento bellico che segna formalmente la caduta del Regno delle Due Sicilie fu la capitolazione di Gaeta, roccaforte nella quale si era concentrata la resistenza borbonica, sottoposta da parte delle truppe piemontesi guidate dal generale Enrico Cialdini ad un durissimo assedio durato ben 102 giorni e culminato con la resa della città avvenuta il 13 febbraio del 1861. Noi sappiamo tutto sull’assedio di Stalingrado o sui bombardamenti cui durante il secondo conflitto mondiale è stata sottoposta la città di Dresda, ma in virtù di una colpevole rimozione poco o nulla  ci è stato detto su Gaeta;  Antonio Ciano, autore di interessanti saggi sugli argomenti che stiamo sviluppando ed ex comunista eletto nel 2008 al Consiglio Comunale di Gaeta nel Partito del Sud (eloquente ed unico caso in Italia di un comune con  più di ventimila abitanti che non sia amministrato da uno dei due poli),  racconta in un’intervista di come la città nel corso della sua storia sia stata sottoposta a ben 17 assedi ma, afferma, quello dei “fratelli” piemontesi fu di gran lunga il più spietato. Fu in questa circostanza che l’esercito sabaudo sperimentò i modernissimi e potenti “cannoni a canna rigata”, un’arma che per la precisione e per gli effetti devastanti gli storici (da Gigi Di Fiore, autore di una dettagliata monografia sull’assedio di Gaeta, a Giordano Bruno Guerri) sono concordi nell’indicare come una sorta di “arma atomica” per quei tempi. Tra miserie ed atti di eroismo (felicemente trasfigurati in chiave letteraria nel romanzo L’alfiere, pubblicato nel 1942 da uno dei grandi dimenticati della nostra narrativa, Carlo Alianiello, romanzo fatto oggetto dalla regia di Anton Giulio Majano di una riduzione televisiva in sei puntate per uno sceneggiato mandato in onda dalla Rai nel 1956 che ebbe un largo seguito di pubblico, recentemente riproposto in dvd dalla casa editrice Fabbri) la città, sottoposta per tre mesi a martellanti bombardamenti, pagò un tributo altissimo di sangue; ai primi di dicembre, a causa anche delle precarie condizioni igieniche, si era diffusa una grave epidemia di tifo petecchiale, ed il generale Cialdini, per fiaccare la resistenza e diffondere il terrore, non trovò di meglio che ordinare che quei potenti cannoni venissero orientati verso ospedali, chiese e abitazioni; Cialdini, quando gli si faceva osservare che questi comportamenti violavano i codici d’onore e militari, era solito rispondere con tono sprezzante: “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Quando dopo tre mesi di  eroica resistenza, l’11 febbraio il re Francesco II, per evitare ulteriori e inutili sofferenze alla popolazione civile ordinerà la capitolazione, Cialdini, in attesa che si metta nero su bianco, continuerà imperterrito per altri due  giorni a martellare la città Dunque Gaeta è forse stato il primo esempio di una tipologia nuova di guerra, quella che caratterizzerà poi in modo drammatico lo scenario del secondo conflitto mondiale: una guerra che coinvolgeva le popolazioni civili con bombardamenti indiscriminati.
Dopo la resa, i soldati borbonici cui era stato garantito dalle autorità militari piemontesi il ritorno alle rispettive famiglie entro quindici giorni furono invece avviati ai lager sabaudi del Nord Italia.
 Come racconta lo storico senese Giordano Bruno Guerri (Il sangue del Sud, Mondadori, 2010, pag. 66), l’economia della città venne completamente distrutta; agli enormi danni provocati dai bombardamenti di aggiunse la devastazione del territorio circostante: i soldati piemontesi, per scaldarsi durante i mesi invernali avevano abbattuto qualcosa come centomila ulivi, elemento portante dell’agricoltura locale, e poiché  di ulivi non  ce n’erano più, pensarono bene di smontare i frantoi della zona per portarseli al Nord. 
Ma non basta. Racconta  Antonio Ciano che casualmente, durante gli scavi effettuati in città nel 1961(giusto in coincidenza con le celebrazioni per il centenario dell’Unità d’Italia: ironia della sorte!) per procedere ai lavori di costruzione delle nuove scuole medie, si offrì agli occhi degli operatori una scoperta agghiacciante:
“Si trovarono di fronte a uno spettacolo orrendo: trovarono una fossa profonda dodici metri, venti di diametro piena di scheletri. Erano i resti dei partigiani e civili di idee borboniche fucilati dai piemontesi… scavando, trovarono del calcinaccio e scavando ancora a circa un metro dal basolato trovarono ossa umane per trasportare le quali nel cimitero di Gaeta gli operai comunali impiegarono un mese; si contarono circa 2000 scheletri. I duemila scheletri indossavano pellicce di pecora, calzavano ciocie, bisacce a tracolla, cappotti borbonici, i cui bottoni vennero tutti trafugati in quanto d’argento vivo con giglio borbonico. L’ultimo mezzo della fossa era impregnato di sangue, il sangue caldo che colava dai corpi dopo le fucilazioni sommarie…”. 
Si procedette quindi alla chiusura della fossa e alla costruzione della scuola, con un’operazione che ha del simbolico: un edificio in cui si insegna una versione edulcorata dei fatti che poggia le proprie fondamenta sugli orrori della verità nascondendone ogni traccia.  
Dunque massacri di civili, fosse comuni, una sorta si Sarajevo ante litteram di cui però nella storiografia ufficiale tutto si tace. Il caso di Gaeta ha un valore paradigmatico per la violenza che su di essa fu esercitata e per le colpevoli dimenticanze della maggioranza degli storici.
Con  la caduta di Gaeta iniziano gli anni della cosiddetta “guerra al brigantaggio”, una vera e propria guerra civile costata un tributo di sangue ben più alto della guerra partigiana del 1943-1945 e tuttavia spacciata dai nostri manuali scolastici per una semplice operazione di polizia contro bande armate. Si trattò invece di una vera resistenza di popolo  che portò ad atti di ferocia inimmaginabile, che negli dal 1861 al 1865 con maggiore veemenza occupò nelle regioni meridionali più della metà degli effettivi dell’esercito unitario e che pur andando in parte scemando si protrasse almeno sino al 1870.
Dei fatti di Gaeta, degli eroismi, delle viltà, delle sofferenze di tutti coloro che comunque concorsero loro malgrado ad incanalare la storia d’Italia verso un corso unitario, subendola sulla propria pelle questa unità, come detto, ben pochi serbano memoria, e fa specie pensare che L’Italia è invece prodiga di memoria verso il generale Enrico Cialdini cui dappertutto sono state dedicate vie (ho scoperto che se ne trova una anche a Palermo, zona Brancaccio) quasi si vedesse in lui un padre fondatore della patria (e in effetti alcuni hanno proposto che il suo nome venisse aggiunto al novero dei “padri” Garibaldi, Vittorio Emanuele e Cavour); una sensazione di stupore, quella determinata dalla dedica di vie al generale Cialdini, che non può far riflettere su quanto scritto giorni addietro in questo blog riguardo alla piccola Angelina Romano e in merito alla pressante richiesta che si leva da più parti affinché le venga intitolata una strada. Soltanto allora, forse, potremo dire di avere assolto un debito con la nostra coscienza e potremo affermare che i festeggiamenti dei 150 anni testé  trascorsi non sono stati una burla intrisa di retorica volta a consolidare un sistema di potere unicamente disposto a togliere voce a chi non ne ha.
Una voce che nel brano che oggi presentiamo (Te deum Gaeta) il cantautore Mimmo Cavallo, oltremodo stimato dalla critica e di cui già in passato ci siamo occupati per il suo rapporto di collaborazione con lo scrittore Pino Aprile e con il regista teatrale Roberto D'Alessandro, cerca di ridare a chi mettendo in gioco il proprio onore e la propria vita in quell’assedio di Gaeta scrisse una pagina di storia dimenticata.

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