di Daniela Palumbo
Baby Reindeer è più di una serie: è una catena; una catena di emozioni contrastanti, dall'incredulità alla rabbia, dalla commozione alla paura. Catena, come quella che lega la vittima - un giovane uomo aspirante attore - alla sua stalker, e questa al suo "cucciolo di renna" , colpevole di averla "illusa" con un unico atto di gentilezza, una sera, al pub. Baby Reindeer tocca temi profondi, importanti, come l'emarginazione e il degrado, l'alienazione e il fallimento: Martha, la stalker, vive da disadattata ai margini della società e agisce per lo più attraverso la tastiera di un pc, che usa ogni giorno e ogni notte come prolungamento di se stessa.
Il ticchettio dei tasti, convulso,
frenetico, avvinghiato ad una scrittura ossessiva, incurante dell'ortografia, disseminata
di forme contratte e di parole turpi, risuona costantemente tanto nel chiuso di
una stanza quanto all'aria aperta lungo le vie della città, e nella mente di
colui che è bersaglio e preda. Martha, col suo viso troppo grande, la sua bocca
troppo larga, e le braccia troppo grasse, fa pena, suscita compassione,
solletica l'umanità, ispira simpatia. E poi, trasformandosi in mostro
molestatore, con la sua risata da gigantesco Gargantua e la sua fisicità
tentacolare, subito dopo fa rabbia, suscita repulsione, stimola l'istinto di
fuga, ispira quasi la foga omicida.
La vittima
è lui, Donny, giovane scozzese
"emigrato" a Londra in cerca di fortuna. Vuole far ridere la gente,
vuole divertire, e attraverso la risata degli altri, illudersi di esistere,
diventare "qualcuno". Ma la stessa risata che fatica ad estorcere ai suoi
spettatori, durante i suoi pietosi spettacolini in locali di quart'ordine,
finisce per divorarlo, facendo leva sulle sue paure più profonde. Martha è la
donna bambina che si aggrappa a lui con tutta la forza straziante, l'arrogante
innocenza di chi fa di un proprio bisogno una pretesa, di una pulsione
primordiale un diritto acquisito, di un sogno appena vagheggiato una realtà
pluristratificata.
E così
lui, il giovane Donny, è costretto a fuggire, e nascondersi, a mentire,
dissimulare, a camuffarsi, dietro
parrucche, cappelli variopinti e pantomime, cercando invano la
"salvezza" davanti a un pubblico che rimane, però, indifferente e impassibile; un pubblico
che non ride. E allora sì, facciamolo
piangere, questo pubblico. Giù la maschera e vai col monologo in cui finalmente
ti metti a nudo. Nudo come su quel
pavimento dove sei stato abusato, nudo come sotto la doccia dove hai cercato di
dissolvere gli umori maligni, nudo come nel letto di quella donna trans che non
hai saputo amare... "Perché c'era una cosa che amavi più di lei: l'odio
per te stesso". Facciamo piangere ciascuno di quegli spettatori, uomini e
donne, bulli e pupe; piangere il proprio padre, durante una sofferta
confessione; piangere LEI, persino, la stalker psicopatica senza freni e senza
misure, dietro le sbarre e "in catene", animale braccato al quale
hanno infine strappato il frutto del suo seno smisurato. Il suo piccolo, il suo
bambino - che importa se finto, di peluche - il suo "baby",
ren...DEAR.
Cucciolo
di renna.
Brava, una “catena” da non perdere.
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