sabato 26 ottobre 2019

Kurdistan, lo Stato che non c'é



di Valentina Sechi

Negli ultimi giorni, l’attenzione del mondo si è volta verso un popolo con una storia lunga e complessa fatta di guerre e tradimenti, speranza e voglia di riscatto: i Curdi.
Si tratta di un popolo formato da gruppi nazionali di origine medio orientale a maggioranza musulmana sunnita con visione dell’Islam progressista e tollerante composto da 30-45 milioni di persone dislocato tra Siria, Iran, Iraq, Armenia e soprattutto Turchia (di quest’ultima i Curdi costituiscono il 20% della popolazione totale ma vivono isolati nelle baraccopoli di periferia in condizioni di degrado) che rivendica una propria identità e chiede autonomia politica e culturale.

La vicenda di questo popolo senza patria affonda le proprie radici nel trattato di Sèvres del 1920 che segnò il disgregamento dell’Impero Ottomano e prevedeva la creazione di uno Stato curdo. Tale progetto tuttavia non si realizzò perché in contrasto con il disegno del presidente turco Mustafa Kemal detto Atatürk, leader nazionalista. Il successivo trattato di Losanna poi del 1923 non prevedeva nemmeno il disegno della costituzione del Kurdistan e la popolazione iniziò la propria diaspora prevalentemente nell’area medio orientale.
La repressione dei Curdi fu particolarmente violenta in Turchia dove il Governo nel 1932 iniziò un processo assimilazionista che raggiunse l’apice con l’istituzione della legge marziale nella regione curda del Paese i cui abitanti vennero ribattezzati “Turchi delle montagne”.
 Nel 1946 l’Unione Sovietica incoraggiò la formazione della Repubblica di Mahabad nel Kurdistan iraniano che fu rasa al suolo undici mesi dopo, poiché rappresentava una minaccia per la Siria unita. Così fu creata una cintura araba per separare il Kurdistan siriano da quello turco.
Episodi di guerriglia e repressione proseguirono fino agli anni settanta del XX secolo quando il Presidente americano Nixon accolse la richiesta dello scià di Persia Pahlavi di sostenere la rivolta dei curdi in Iraq. Nuovamente le speranze di uno Stato autonomo vennero meno a seguito dell’accordo tra Persia e Iraq e della successiva ritirata degli USA.
Purtroppo nel decennio successivo si assistette ad una recrudescenza della conflittualità a opera di movimenti politici tra i quali spicca il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) fondato dal curdo con cittadinanza turca Öcalan, con l’obiettivo di creare una repubblica indipendente curda attraverso attacchi terroristici contro la Turchia. Il PKK è considerato organizzazione terroristica da molti Paesi tra cui USA, UE, NATO ma non dai BRICS e NU (tra i principali partiti curdi insieme al Partito Democratico Curdo, filoturco e al Partito dell’Unità Curda, filoiraniano). Seguirono anni violenti caratterizzati dal genocidio dei curdi a opera del leader iracheno Saddam Hussein mentre nel 1991 il Presidente americano George W. Bush sostenne una loro rivolta per indebolire il Rais. Il soffocamento della quale produsse una no-fly zone americana sulle montagne tra Turchia e Iraq dove i curdi si erano rifugiati e che rimase in vigore fino all’invasione americana del 2003.
Dopo la caduta di Hussein, la zona settentrionale dell’Iraq è stata riconosciuta  regione federale autonoma del Kurdistan iracheno. Con il successivo ritiro americano e lo scoppio della guerra civile in Siria si è formata nel 2014 de facto una zona amministrativa autonoma, detta Rojava, nel nord-est del Paese non ufficialmente riconosciuta dal Governo, sotto il controllo dell’Unità di protezione popolare (YPG), combattenti legati al PKK e alleati agli USA per contrastare l’ISIS, affiancati da Unità di Protezione delle donne (YPJ).
Intanto nella terra della mezza luna il PKK aveva interrotto nel 2004 il cessate il fuoco dichiarato 15 anni prima. Benchè all’inizio del suo mandato il presidente Erdogan avesse lanciato segnali di distensione verso i curdi con una parziale amnistia per i militanti del PKK incarcerati e la riabilitazione della lingua curda, lasciando ben sperare per un felice esito della questione curda. Ancora una volta le sorti del popolo curdo si rovesciarono quando nel 2015, a causa della guerra civile in Siria, il presidente turco, considerando il peso politico del PKK e temendo che questo partito avrebbe fomentato le rivendicazioni dei turchi curdi, fece retrofront iniziando a bombardare i curdi nel sud-est del Paese, chiudendo le loro istituzioni culturali e sostituendo i sindaci eletti con amministratori compiacenti.
Successivamente, in virtù del fondamentale intervento nella lotta all’ISIS, era stata immaginata la creazione di una regione con ampia autonomia, come avvenuto in Iraq, ma anche tale progetto è sfumò perché inviso alla Turchia, contraria alla ipotesi di uno Stato curdo lungo i suoi confini orientali. Ad ogni modo a trattenere ogni offensiva turca contro i curdi era la presenza dei marines americani in zona, venuta poi meno con il ritiro disposto dal presidente Trump il 7 ottobre. Il Tycoon ha spiegato che ritenendo sconfitto l’ISIS non vi erano più interessi a rimanere nell’area come aveva promesso in campagna elettorale.
Appena due giorni dopo la Turchia inizia l’operazione “Fronte di Pace” , che dopo “Scudo dell’Eufrate” del 2016 e “Ramoscello d’ulivo” del 2018 nate per la protezione dei confini meridionali della Siria e la creazione di un cuscinetto di sicurezza tra Turchia e Siria, punta al creazione di una zona di sicurezza in cui collocare parte dei rifugiati siriani di etnia araba situati in Turchia e allontanare le milizie curde dell’YPG e YPJ dal Paese, segnando di fatto l’invasione turca del Kurdistan siriano.
Con gli USA fuori dai giochi, gli attori principali sulla scena restano Putin ed Erdogan, con un ruolo di rilievo della Siria. Pochi giorni più tardi, il 22 ottobre, viene siglato un accordo a Sochi tra Turchia e Russia per evitare un’escalation del conflitto, definito “storico” a Damasco e anche sorprendente, se si considera che la Russia ha supportato il presidente siriano Assad e la Turchia ha sostenuto i ribelli contro il suo regime.
Tale accordo rafforza la presenza dei due paesi nell’area nel rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità siriane, infatti prevede che i turchi controllino l’area compresa tra Tel Abyd e Ras Al Ayn senza interferire con il piano di Assad per creare una fascia di sicurezza, mentre il territorio ai lati delle due città vede l’ingresso delle forze russe e siriane nel lato siriano del confine con la Turchia per facilitare, nel corso di una tregua di 150 ore, il ritiro delle milizie curde YPG da un’area di 30 km dal confine, oltre a pattugliamenti congiunti lungo i confini, sotto il controllo dell’esercito turco. Con eccezione di Qamisli, captale curda de facto, l’area attualmente sotto controllo curdo sarà trasformata in una zona sicura.

Tra i 10 punti del memorandum del vertice è prevista la spartizione dei pozzi petroliferi del Rojava tra Iran e Siria di cui si fa garante la Russia per cui Damasco controllerà il nord del paese con l’assenso di Mosca che si è impegnata alla proroga dell’accordo di Adana, siglato nel 1998 per impedire attacchi curdi del PKK dalla Siria alla Turchia.
Vero obiettivo di questo accordo, oltre alle rendite petrolifere, è la sostituzione dei curdi con i profughi siriani che verrebbero situati nella safe zone adiacente al confine tra Turchia e Siria, terra abitata storicamente dai curdi che sono costretti a tornare nella terra da cui erano scappati per sfuggire al regime siriano, realizzando nei fatti l’arabizzazione del Rojava.
La creazione della zona di sicurezza tra Turchia e Siria che Trump aveva celebrato come proprio successo, le rassicurazioni sulla sicurezza dei curdi e dei prigionieri dell’Isis catturati, il ritiro delle sanzioni imposte alla Turchia a seguito del cessate il fuoco permanente tra Turchia e forze democratiche siriane (SDF) servono a gettare fumo negli occhi rispetto al fatto che di fatto i curdi sono stati abbandonati dagli USA che preferiscono tenerli al confine nonostante rimanga a sorvegliare i giacimenti petroliferi un esiguo numero di soldati americani.
Ancora una volta si infrangono gli auspici del popolo curdo siriano per uno Stato autonomo, un giusto riconoscimento per la lotta alle milizie islamiche. I curdi in un momento di disperazione pur di trovare pace avevano cercato la protezione di Assad nel silenzio assordante dell’ONU e della NATO di cui la Turchia fa parte e degli altri stati dello scacchiere geopolitico mondiale che si sono limitati ad un formale placet sull’accordo di Sochi per paura che un nuovo stato creasse instabilità in un’area già duramente colpita da conflitti e guerre civili, di un’Europa debole minacciata con il ricatto di invio di 3,6 milioni di rifugiati. E’ mancata all’Occidente la capacità di presentarsi con una sola voce sulle scene internazionali, andando oltre le lotte di potere interne, è mancata una volontà forte di agire per preservare un baluardo laico dell’Oriente che sta sprofondando verso la notte buia della regressione fondamentalista, delle dittature, delle guerre permanenti, è mancata una movimentazione sociale e mediatica d’impatto che suscitasse lo sdegno di quanti si proclamano paladini della parità tra sessi, del multiculturalismo, della difesa delle minoranze eppure ignorano la straordinaria lezione di civiltà che proviene dal Rojava: il confederalismo democratico.
Questo principio elaborato da Öcalan sulla base del municipalismo libertario e dell’ecologia sociale teorizzate da Bookin, ha prodotto una democrazia priva però di uno stato. I capisaldi che ne ispirano l’azione sono l’organizzazione comunitaria laica anti-capitalista, anti-patriarcale e anti-statalista e pluralista spinta dal basso (poichè i quartieri nominano i propri rappresentanti), l’uguaglianza tra uomo e donna che si manifesta attraverso la presidenza congiunta di tutti gli organismi e discende dalla gineologia (la scienza che mira alla liberazione della donna riconoscendone il ruolo nella storia), il ruolo delle città come luogo di aggregazione e confronto e l’impegno nei confronti dei giovani. E’ un messaggio di speranza quello che arriva dal Kurdistan, di fiducia nel futuro, della volontà di andare avanti nonostante tutto, di coraggio e impegno.
E’ intollerabile che una vicenda del genere si consumi oggi e che il mondo resti spettatore inerme davanti alle atrocità e alle sofferenze di tante persone. Forse la questione curda è molto meno trendy dei “Fridays for future” e della problematica ambientale. L’assoluta indifferenza dell’opinione pubblica occidentale testimonia una perdita di umanità, una società asfittica, ripiegata su stessa, avulsa rispetto a quei temi che non sono social friendly.
Dove sono tutti gli amanti della democrazia, i fautori delle politiche dei porti aperti, le celebrità che salgono sulle navi per dimostrare solidarietà ai rifugiati. Perchè devono esistere rifugiati di serie A e di serie B? Quanto a lungo il grido di dolore di questo popolo dovrà risuonare prima che si agisca per trovare una soluzione? I Curdi sono stati troppe volte illusi e traditi ma nonostante tutto l’oasi del confederalismo democratico dimostra che anche nel cemento può nascere un fiore che va difeso e protetto. E’ questo quello che il mondo dovrebbe ricordare. L’Occidente ormai vecchio e stanco dovrebbe lasciarsi ispirare da paesi più giovani e recuperare l’essenza, l’entusiasmo e perché no un pizzico d’incoscienza, per ripensare che se nella nostra storia troviamo le radici abbiamo bisogno di ali per volare oltre i muri che ci circondano, reali o virtuali che siano, abbracciare la sofferenza e la paura degli apolidi e agire per dissolverle prima che sia troppo tardi. Il mondo che protestava contro la guerra in Vietnam, il mondo delle mobilitazioni di massa e dei cortei è sparito, anzi no è cresciuto, ha messo la giacca e la cravatta ha assunto un’aria compita e grave, si è fatto distrarre dalla rivoluzione tecnologica che ci vuole sempre connessi e paradossalmente più soli perché Posto ergo sum è il nuovo Cogito ergo sum. E’ ancora possibile sperare in un futuro migliore, immaginarlo e costruirlo. Il popolo curdo continuerà la propria battaglia per il diritto a un proprio Stato, per una terra che possa chiamare patria dove finalmente vivere in pace e al sicuro. Questa volta per davvero.

24/10/19
 








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