di
Valentina Sechi
La
Libia è nuovamente sull’orlo del baratro. Il Paese africano è scontro di una
sanguinosa guerra civile che ha fatto oltre 700 morti e la situazione non
accenna a migliorare.
Facciamo
un passo indietro per comprendere come si sia arrivati a questo punto. Il caos
libico affonda le proprie radici nella caduta di Gheddafi avvenuta nel 2011 a
cui è seguito l’inizio di un periodo di anarchia legata a divisioni tribali e
scontri tra milizie armate.
Le
elezioni del 2012 videro il trionfo della National Forces Alliance (NFA),
partito liberale. Nel successivo mese di agosto, veniva costituito il General
National Congress in sostituzione del Consiglio Nazionale di Transizione
guidato dal Primo Ministro al-Thani.
Nel
2014 le milizie islamiche avevano ataccato l’aeroporto di Tripoli controllato
da milizie vicine al NFA e a giugno di quell’anno il maresciallo Haftar, capo
dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) lanciò un’operazione militare per
contrastare le milizie islamiche che risposero con una controffensiva per
bloccare Haftar chiamata Alba Libica.Il Parlamento si stabilì a Tobruk e
riconfermò al-Thani Primo Ministro mentre Alba Libica creò, poco dopo, un
Parlamento parallelo a Tripoli formato dai dissidenti della Camera dei
Rappresentanti di Tobruk chiamato New General National Congress che gode del
sostegno di Haftar.
Nel
2016 si è insediato a Tripoli il Governo di Accordo Nazionale guidato dal Premier
Serraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite per pacificare il Paese, obiettivo
ancora ben lontano dall’essere raggiunto.
Ad
aprile Haftar ha iniziato un attacco contro la capitale per la conquista della
città che sarebbe dovuto concludersi entro breve ma che risulta ancora in
corso.
Attualmente,
il LNA controlla l’area Est mentre il
GNA l’area Ovest. La situazione sembra volgere a favore del GNA che ha
recentemente conquistato Gharyan, roccaforte
di Haftar e fondamentale per entrare nella capitale. Nel momento in cui
il maresciallo è debole e le milizie e fazioni tribali mercenarie che lo
sostengono appaiono stanche e demotivate, la Comunità Internazionale dovrebbe
approfittarne per condurlo al tavolo delle trattative e per porre fine alla lotta di potere che
insanguina il Paese ; molti vedono in lui il principale ostacolo
all’unificazione perché non riconosce il governo di Serraj e non ritiene la
Libia pronta alla democrazia.
L’inviato speciale ONU per il conflitto libico
Salamè ha avvertito il Consiglio di Sicurezza che se non si ferma l’invio di
armi da parte di Turchia, Egitto, Qatar e Paesi del Golfo nonostante l’embargo
e non si ottiene un immediato cessate il fuoco, si rischia la divisione del
Paese e ulteriore instabilità regionale che avrebbe delle importanti
conseguenze a livello globale.
È
proprio la portata su scala mondiale del conflitto a imporre una riflessione:
il LNA è sostenuto da Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto. Più ambiguo
il ruolo degli USA e sopratutto della Francia. I primi non hanno approvato in
sede di Consiglio di Sicurezza la risoluzione di condanna al raid su Tajura per
via della simpatia di Trump verso il maresciallo, esaltato dal Presidente
egiziano al-Sisi come eroe nella lotta al terrorismo durante una telefonata con
il Tycoon, nonostante il suo staff non lo veda di buon occhio. La seconda ha
avuto incontri con delegazioni di Haftar e ha bloccato una risoluzione ONU per
chiedergli di fermare l’offensiva su Tripoli.
Il GNA
gode del supporto di NU, UE, Italia,Qatar e Turchia ma trova difficoltà ad
affermare il proprio potere non avendo mai raggiunto la stabilità necessaria
per governare in modo forte e sopravvive
perché alcune milizie sono contrarie ad Haftar e l’interesse per ragioni
politiche di alcuni sostenitori.
Proprio
quest’ultimo Paese si trova in un delicato equilibrio con le due fazioni in
lotta poiché la Libia è il terzo partner commerciale in Africa della Turchia
che è tra i maggiori investitori in Libia. I buoni rapporti tra i due Paesi
erano dovuti al fatto che nel 1974,
a seguito dell’embargo imposto dagli USA per l’intervento a Cipro,
la Libia fornì ad Ankara i ricambi necessari per i caccia di fabbricazione
statunitense, ma sono degenerati quando nel 2014, Haftar ha accusato la Turchia
di supportare il terrorismo e le milizie islamiche legate alla Fratellanza
Musulmana contro il LNA offrendo loro supporto logistico, finanziario e
armamentario e, di contro, questa ha chiesto ai propri cittadini di lasciare
l’area est del Paese. Sono stati visti droni turchi in aria e un veicolo turco
è stato abbattuto in fase di decollo e si riporta lo sbarco di veicoli blindati
provenienti dal Paese. La tensione era
aumentata quando erano stati catturati dalle milizie sei marinai turchi
successivamente rilasciati a causa della paventata minaccia di un pesante
attacco e Haftar aveva ordinato di prendere di mira le compagnie turche,
vietarne i voli e arrestare i cittadini turchi in Libia per via delle
interferenze sulla vita del Paese da parte di Ankara.
Oltre
alle tensioni internazionali, il Paese sta attraversando una grave crisi
umanitaria ed economica. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni, almeno 3600 migranti sarebbero detenuti a
Tripoli e anche nel resto della Libia molte persone si troverebbero nei centri
di detenzione in condizioni indegne per un essere umano, come dimostrano le
proteste nel centro di Zintan in cui i migranti sono stati tenuti per mesi tra
spazzatura e larve di mosca, spesso privati di acqua, cibo e luce solare come
forma di punizione. Secondo quanto riferisce l’avvocato per i diritti umani
Giulia Tranchina, i migranti preferiscono morire sotto le bombe piuttosto che
andarci. Essi hanno inoltre accusato le agenzie ONU di non rispondere affatto o
con troppa lentezza alle loro richieste mentre queste ribattono che le milizie
impediscono loro l’accesso, circostanza negata dal colonnello Nakoua che
controlla l’area.
Un
altro grave fatto di sangue ha riguardato il centro di Tajoura, colpito da un
raid aereo in cui sono morte almeno 100 persone su circa 610 migranti. Il
governo ha accusato Haftar e le sue milizie ma questi ha negato ogni
responsabilità e i suoi uomini avrebbero sparato ai profughi che tentavano la
fuga.
Si
rende quanto mai necessario portare la gente in salvo poiché la Libia non è un
posto sicuro puntando sulla creazione di corridoi umanitari e trovando un
accordo sui meccanismi di salvataggio e arrivo prima che l’Europa si ritrovi ad
affrontare una situazione a cui è impreparata.
Nei giorni
scorsi, proprio in virtù delle condizioni di emergenza, il Presidente Serraj
aveva ventilato l’ipotesi di aprire i centri di detenzione che al momento
contano circa 8000 persone. Tale scenario potrebbe, tuttavia, influire
negativamente sulla sua forza politica poiché i prigionieri accetterebbero
qualunque lavoro, anche l’arruolamento tra le milizie di Haftar, pur di avere
il denaro necessario per spostarsi via terra o mare e raggiungere così l’Europa
passando per l’Italia.
Proprio
il nostro Paese gioca un ruolo fondamentale nei fragili equilibri relativi allo
Stato africano. Il Premier libico si è recato la scorsa settimana a Milano per
incontrare il Ministro dell’Interno Salvini che sta cercando di porsi come
figura di riferimento nel processo politico avviato dall’ONU e ha chiesto al
Presidente del Consiglio Conte di fare di più per sostenere Tripoli nel
consolidamento del ruolo politico del suo governo dopo che l’Italia era stata
criticata per una posizione troppo attendentista. Il colloquio ha riguardato la
crisi libica e Serraj ha promesso di migliorare le condizioni dei migranti nei
centri di detenzione.
La Libia è stata al centro dell’incontro tra
Conte e Putin che ritiene responsabile la NATO del caso libico e pensa che
spetti ad essa agire per prima nell’imporre il cessate il fuoco ribadendo che
Mosca sostiene entrambe le fazioni. Entrambi convergono sul fatto che
l’instabilità potrebbe avere gravi ripercussioni sulla sicurezza delle
infrastrutture energetiche.
Alla
crisi umanitaria si aggiunge l’emergenza idrica. Interruzioni nella fornitura
d’acqua sono comuni dopo 8 anni di semi anarchia in un Paese desertico diviso
tra governi e fazioni militari a causa dei danni inferti al sistema di
controllo delle acque dalle milizie di Haftar, della contaminazione dell’acqua
in bottiglia e dalla situazione precaria degli impianti di desalinizzazione,
smantellati per venderne il rame e colpiti dagli uomini delle tribù per farsi
sentire dagli ufficiali della capitale e non trattati per la mancanza di fondi.
La
Libia era uno degli Stati più ricchi d’Africa, ma la situazione politica ha
eroso gli standard di vita sebbene il Paese mantenga redditi sopra la media,
grazie al petrolio. Gran parte del bilancio, tuttavia, serve a pagare gruppi
armati, un apparato pubblico eccessivo e sovvenzioni per carburanti o è
semplicemente rubato. Per migliorare la situazione il governo si è impegnato a
combattere la corruzione anche con l’ausilio di riforme economiche parzialmente
efficaci. I gruppi armati hanno forzato lo Stato a dare loro o ai propri
partner lavori o appalti e il Paese dipende da ONU e altre organizzazioni
internazionali per molteplici servizi ed è isolata dopo che il 7 luglio
l’aeroporto di Tripoli è stato colpito da Haftar.
La
tragedia della Libia dimostra la paralisi di una Comunità Internazionale
incapace di un’azione decisiva che richiederebbe una leadership stabile e
determinata sostenuta da uno Stato di diritto e istituzioni democratiche capaci
di garantire un’esistenza dignitosa e libera senza la necessità di rivolgersi a
trafficanti senza scrupoli che per il proprio tornaconto calpestano i più
elementari diritti umani e si approfittano della disperazione di chi per
scappare è disposto anche a morire.
09/07/2019
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