di Elena Squarci
Entrando nella sua
bottega si poteva facilmente intuire quanto fosse stata attiva alla cassa
durante la giornata per la quantità di particelle di borotalco disperse
nell'aria. Nella fresca penombra di quel negozio e a quella cassa lei ci
passava le giornate, infilata tra il muro e la porta con la tenda a
striscioline di plastica, dietro al bancone, incastrata in una grossa sedia con
i braccioli che sparivano dentro gli enormi fianchi.
E tutto era avvolto in un suggestivo profumo di spezie, mortadella e
sapone di Marsiglia.
Per molti sull'isola,
come quasi sempre accade in luoghi piccoli dove tutti si conoscono per nome,
era solo Alfonsina e non la signora tal dei tali, anche se era sposata e un
cognome da nubile presumo lo avesse come tutti. Ma in effetti credo di non
averlo mai saputo. Per il resto, nonostante siano passati molti anni da allora,
ne ho ancora un vivido ricordo. C'era un viso dalle linee delicate da cui si
poteva intuire quanto fosse stata bella da giovane. Il corpo invece era
prigioniero di un enorme involucro, quasi fosse un secondo contenitore e di
dimensioni davvero notevoli. Alfonsina era indubbiamente grossa e si faceva
fatica a immaginarla diversa da così. Sull'isola tutti ripetevano come un
mantra: "Se Alfonsina non perde tanticchia di pisu prima o poi ci lascia i
pinni". Non lo perse mai quel "tanticchia", anzi peggiorò negli
anni, fino a non avere più una vita normale. Ed è così che è nata la leggenda, e cioè che lei dormisse lì, dietro alla
cassa, incastrata tra il muro e la porta, in quella sedia e che il borotalco
servisse per evitargli ‘pericolosi attriti’. Ma non era vero. Alfonsina a casa
ci andava. Con mio fratello capitavamo spesso nella sua bottega, quasi sempre a
metà pomeriggio, per consegnare la lista della spesa o per comprare ghiaccioli
e qualche bibita fresca, e non sempre la trovavi al suo posto. Alfonsina ci voleva bene. Ci chiamava "i suoi due carusi", perché in
un certo senso ci aveva visto crescere, cambiare anno dopo anno, lei che non
aveva avuto figli, ci misurava con gli occhi, protettiva, quasi fosse una
parente, sempre piena di attenzioni e parole gentili. Alfonsina era
indubbiamente una persona amabile, ma anche lei peccava di qualche difetto,
come quello strano vizio di arrotondare per eccesso sul totale al momento di
pagare il conto. “Preferisco le cifre tonde”, disse l’unica volta che commentò,
e questo probabilmente per non dover tornare più sull’argomento. “Sono più
comode!” sentenziò alla fine. Sorridendo e fissandoci a turno. A quel punto
reclamare ci sembrò inutile. E poi c’era quell'insopportabile abitudine di fare a mano il conto, invece di
usare la calcolatrice, costringendo anche noi in lunghe liste di numeri da
sommare, in piedi ad alta voce come a scuola, in una interrogazione alla
lavagna, e sembrava che la cosa la divertisse molto. Erano attimi terribili,
imbarazzanti, con quegli interminabili riporti che alla fine ci confondevano.
Ma non lei, che prontamente ne approfittava tirando la linea su un improbabile
totale, a noi sempre benvenuto, perché poneva fine a quella tortura.
Alfonsina era una donna di spirito, intelligente e di buona cultura. Aveva
sempre mucchietti di libri sul bancone della cassa e da quel che ricordo erano
buone letture. Prima di sposarsi e trasferirsi sull'isola era stata una maestra
e sicuramente anche una buona insegnante. Ma Alfonsina era soprattutto una
buona osservatrice. Sembrava che da dietro quella sua cattedra non le sfuggisse
nulla. Di tutti sapeva vita, morte, peccati e opere di bene. Coloro che
entravano e uscivano dal suo emporio erano, come si direbbe oggi, scannerizzati
e memorizzati in ogni particolare. Alfonsina ne faceva sicuramente un punto di
orgoglio e di forza, ma soprattutto un passatempo; in fondo non aveva altro da
fare, se non studiare il suo prossimo che le sfilava davanti.
Un'estate tornati come sempre sull'isola, fu lei la prima fra tutti ad accorgersi che qualcosa in me era cambiato: "Elenuzza ma che ti sei fatta donna? Calogero vene a acca', vieni a vedere la nostra Elena quanto si fici granni!". Per fortuna Calogero in quel momento non era nel retrobottega e io non dovetti sprofondare per la vergogna. "Nun sicchiù tutta occhi e gammi e ti sono spuntate pure le tettine! Come dite voi a Roma?" Mio fratello, pronto come sempre in questi casi: "noi diciamo zizze e anche sise!"
E figuriamoci se non si lasciava scappare l'occasione di stare zitto! Dopo, usciti dal negozio – superato l'imbarazzo e picchiato mio fratello – mi resi conto che mi sentivo piacevolmente soddisfatta che qualcuno si fosse accorto delle mie due timide pustole sotto il copricostume. Avrei preferito che fosse stato Salvo, il figlio del pizzaiolo, bello come il sole, ma mi accontentai, rassegnata di esordire in quel campo più avanti.
Qualche anno dopo quell'episodio, Alfonsina ci lasciò. Morì, e purtroppo scelse di farlo nel periodo peggiore, in pieno agosto, con un caldo feroce, implacabile e l'urgente problema di doverla trasferire nel suo paese natale, in Sicilia, così come aveva lasciato scritto nelle sue ultime volontà.
In una delle estati più torride di quei primi anni '80, non c'era tempo da perdere poiché il corpo – che già per le grosse dimensioni esigeva una bara di zinco, speciale e fatta su misura – continuava a gonfiarsi, a gonfiarsi, in modo inquietante! Le ore passavano inesorabili e nonostante i notevoli sforzi per mantenere i resti mortali della povera defunta nel luogo più fresco dell'isola – dietro l’altare della chiesa di San Bartolomeo – il pericolo di dover rifare tutto, cioè una bara di zinco ancora più grossa, era più che una lontana ipotesi. Per fortuna, l'anelato contenitore arrivò, prima dell'imminente catastrofe da tutti tanto paventata, e ripostovi l'ormai esagerato contenuto – ma non prima di una veloce, anzi velocissima cerimonia e un corteo funebre che sfiorò i 60 chilometri orari – il feretro giunse finalmente al molo e all'aliscafo. E dopo aver oscillato dentro quella bara, pericolosamente per alcuni secondi, appesa all'argano, davanti agli occhi terrorizzati di tutti i presenti che erano lì per lei, per quell'ultimo saluto, Alfonsina lasciò per sempre l'isola e tutti coloro che in un modo o nell'altro erano stati parte della sua vita, che l'avevano amata, o semplicemente apprezzata. E.S.
Un'estate tornati come sempre sull'isola, fu lei la prima fra tutti ad accorgersi che qualcosa in me era cambiato: "Elenuzza ma che ti sei fatta donna? Calogero vene a acca', vieni a vedere la nostra Elena quanto si fici granni!". Per fortuna Calogero in quel momento non era nel retrobottega e io non dovetti sprofondare per la vergogna. "Nun sicchiù tutta occhi e gammi e ti sono spuntate pure le tettine! Come dite voi a Roma?" Mio fratello, pronto come sempre in questi casi: "noi diciamo zizze e anche sise!"
E figuriamoci se non si lasciava scappare l'occasione di stare zitto! Dopo, usciti dal negozio – superato l'imbarazzo e picchiato mio fratello – mi resi conto che mi sentivo piacevolmente soddisfatta che qualcuno si fosse accorto delle mie due timide pustole sotto il copricostume. Avrei preferito che fosse stato Salvo, il figlio del pizzaiolo, bello come il sole, ma mi accontentai, rassegnata di esordire in quel campo più avanti.
Qualche anno dopo quell'episodio, Alfonsina ci lasciò. Morì, e purtroppo scelse di farlo nel periodo peggiore, in pieno agosto, con un caldo feroce, implacabile e l'urgente problema di doverla trasferire nel suo paese natale, in Sicilia, così come aveva lasciato scritto nelle sue ultime volontà.
In una delle estati più torride di quei primi anni '80, non c'era tempo da perdere poiché il corpo – che già per le grosse dimensioni esigeva una bara di zinco, speciale e fatta su misura – continuava a gonfiarsi, a gonfiarsi, in modo inquietante! Le ore passavano inesorabili e nonostante i notevoli sforzi per mantenere i resti mortali della povera defunta nel luogo più fresco dell'isola – dietro l’altare della chiesa di San Bartolomeo – il pericolo di dover rifare tutto, cioè una bara di zinco ancora più grossa, era più che una lontana ipotesi. Per fortuna, l'anelato contenitore arrivò, prima dell'imminente catastrofe da tutti tanto paventata, e ripostovi l'ormai esagerato contenuto – ma non prima di una veloce, anzi velocissima cerimonia e un corteo funebre che sfiorò i 60 chilometri orari – il feretro giunse finalmente al molo e all'aliscafo. E dopo aver oscillato dentro quella bara, pericolosamente per alcuni secondi, appesa all'argano, davanti agli occhi terrorizzati di tutti i presenti che erano lì per lei, per quell'ultimo saluto, Alfonsina lasciò per sempre l'isola e tutti coloro che in un modo o nell'altro erano stati parte della sua vita, che l'avevano amata, o semplicemente apprezzata. E.S.
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