Notte

di Enzo Barone

Di là della punta del Rais
dove illanguidisce l’occidente
e l’ora vibra in accordo minore
è ancora un vacillare di luce;
si sfrangia uno spasimo d’indaco e rosso angelico
in lingue sfaldate,
abbandonati cascami del giorno,
come urlati i timbri del Norvegese


Tra poco arrivano
- ne sento già le insidie -
spietate le tenebre dell’est:
dilaga il loro assedio;
ecco, le sento
cavalcano rovinose nere vedove
dal blu di Capo Gallo
al corruscare lilla della punta:
verranno
e faranno strame,
del piccolo barlume
e tutto sarà cupa notte.
Poi, l’attimo dopo appena,
ci stupiremo
di serbarne solo una memoria incerta
come di un suono che rapprende
di una rima che ondeggia,
un nulla
che sfavilla.

Nel serraglio fitto delle palpebre
sento scrosciare la petraia
e l’onda del mare che la dispregia
senza pietà,
senza rimedio:
il maestrale crudo ne reca un suono
come di un rancore antico e bieco.
Ecco, si svelano ora tristi addobbi incollati al cielo
stelle e pianeti,
insensato groviglio di muti cataclismi
e incomprensibili coincidenze

Vedo disseminati i colori,
irresoluti i segni,
dissipati gli orizzonti,
la barca persa
alla corrente inetta
e la vincaia sibilare
al vento
di più cruda tigna


Annotta


Non resta
Che discendere
Soli o congiunti,
nel tenebroso cuore una volta ancora,
passare il male di questo rivo
necessario e sordo:
che non trascorra il calice,
che si sparga domani ancora
di nuovo il sangue del probatico sacrificio;
che si dischiuda
come il ciclamino, una volta ancora,
la rima irresoluta

Darei la vita per un istante solo di vita aurorale,
per il trasalire attonito di un volto,
per l’ignoranza di tutto il male
che il mondo fonda,
per l’innocenza di un profumo primitivo


Un giorno
l’altro,
un altro dopo
ancora;
un sogno,
una ferita
un altra
ancora;
verrà di nuovo l’ombra,
ed il maestrale
ed io non so
con che inganno
ancora rabberciare
le mie slabbrate trame