dI Valentina Sechi
Il recente attacco rivendicato dall’Isis a Marsiglia,
in cui sono morte due donne, può costituire un buon punto di partenza per una
riflessione sulla trasformazione delle strategie adottate dall’organizzazione.
A differenza del passato, gli attentatori non si fanno
saltare in aria con l’esplosivo ma, generalmente, attaccano luoghi simbolici e
affollati brandendo armi da fuoco o bianche e spesso vengono utilizzati veicoli
alla stregua di bombe. Dietro questo cambiamento si cela un messaggio rivolto
ai combattenti incitati ad attaccare il nemico occidentale a casa propria,
infliggendo loro tutto il male possibile come enunciato dal leader di Al Qaeda Al
Suri nella teoria delle mille ferite secondo cui sono necessarie azioni
decentralizzate individuali o da parte di piccole cellule per piegare la
volontà di combattere del nemico.
L’aspetto che sicuramente desta più preoccupazione è
tuttavia la capacità di sfruttare le motivazioni che possono indurre un
individuo a commettere un attentato di qualsiasi natura esse siano (fanatismo,
ideologia, odio o altro ancora) dando a una ragione di vita e di morte.
Nonostante la perdita di territori infatti l’Is non mira a mantenere e gestire
un territorio fisico, le aspirazioni ideologiche sono molto più importanti,
l’obiettivo non è l’instaurazione di un governo jihadista ma attacchi
sistematici contro l’Occidente caratterizzati dalla trasformazione, già in
atto, di lupi solitari in forza insurrezionale clandestina meno centralizzata
in cui le piccole cellule opereranno con grande autonomia.
Ai fini del disegno generale assume particolare
rilievo la strategia comunicativa posta in essere dall’Isis: da un lato la
formazione dei combattenti destinati agli attacchi contro l’Occidente,
dall’altro, la propaganda di radicalizzazione che si rivolge in particolare a
immigrati di II e III generazione che sperimentano segregazione sociale,
disperazione, rabbia, insuccessi, vita di strada e carcere.
Attraverso social network e altri strumenti di
propaganda, l’Isis ha iniziato a diffondere veri e propri manuali di istruzioni
in cui si spiega come noleggiare camion per travolgere cittadini inermi, dove,
quando e come colpire, come usare oggetti facilmente reperibili per causare
stragi; a titolo meramente esemplificativo si può citare “ Le regole di
sicurezza del musulmano” in cui viene spiegato come evitare le intercettazioni
telefoniche e comunicare in sicurezza. Video e contributi rilasciati sulla rete
amplificano il messaggio che così raggiunge gli aspiranti foreign fighters,
giovani alla ricerca di una causa per cui immolarsi e su cui la crudezza delle
immagini inneggianti al jihad esercita un fascino irresistibile come mezzo per
combattere le ingiustizie perpetrate dall’Occidente. Virilità e coinvolgimento
diventano la chiave per un’azione incisiva ed efficace nel reclutamento di
nuovi combattenti.
La lotta ai foreign fighters rappresenta un elemento
cruciale che appare tuttavia sottovalutato. Il coordinatore anti terrorismo UE
De Kerchoeve ha asserito di fronte al Parlamento Europeo che non è possibile
incarcerare i combattenti che tornano in Europa ma che vadano piuttosto
reintegrati a meno che non vengano trovate prove concrete.
E l’Italia? Dove si colloca nel complicato scenario
delineato? Il nostro Paese non è stato
attaccato nonostante non siano mancate le minacce nei confronti della Capitale
e del Vaticano per aver partecipato a varie operazioni militari contro il
regime. Le ragioni sono molteplici. Doverosa premessa è che l’Italia ha
funzionato da base logistica per vari movimenti radicali islamici ed è
considerata un centro operativo irrinunciabile in cui è facile procurarsi armi,
alloggi e documenti infiltrando uomini tra i migranti che ogni giorno raggiungono
le nostre coste. In primo luogo, il background di prevenzione affinato durante
la lotta al terrorismo negli anni di piombo e fondato sugli strumenti
sviluppati nel contrasto alla criminalità organizzata che ha insegnato
l’importanza del dialogo tra servizi segreti e forze dell’ordine. In secondo
luogo, il numero di simpatizzanti è ridotto così come quello degli immigrati di
II e III generazione (che presentano maggiori rischi di radicalizzazione in
quanto hanno perso il legame con la terra di origine e non sono ancora
pienamente integrati nella società occidentale). In terzo luogo, la
predominanza di città medie e piccole rende più agevoli i controlli rispetto a
luoghi come le banlieu francesi. Un quarto elemento è dato dal sistema legale
che consente di trattenere i sospetti e porli in carcerazione preventiva nonostante
sia risaputo che la prigione costituisce un territorio privilegiato per il
reclutamento e la creazione di reti. E’ altresì possibile espellere i non
cittadini sulla base di semplici indizi di colpevolezza poiché sufficienti ad
autorizzare intercettazioni telefoniche per cui si pone il problema di
contemperare sicurezza e libertà con un occhio al trattamento riservato nelle
carceri. Secondo il PM A. Spataro è importante che l’antiterrorismo non mini i
principi legali alla base della democrazia considerando le conseguenze a
medio-lungo termine a cui un approccio così duro potrebbe portare. Un ultimo ma
non meno interessante elemento riguarda il rapporto tra Isis e criminalità
organizzata: i terroristi farebbero affari con quest’ultima legati alla
compravendita di armi e documenti falsi. I criminali locali tuttavia
fornirebbero informazioni alle forze dell’ordine perché non vogliono il proprio
territorio invaso da migliaia di immigrati. Ruolo di primo piano è svolto dal
Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo che condivide informazioni di
intelligence con gli altri attori europei. E’ presente, inoltre, una dimensione
religiosa nell’antiterrorismo italiano poiché il Papa è una figura ancora
importante e la comunità ebraica vigila sui musulmani radicali.
A causa della perdita di pozzi di petrolio per via di
raid o riconquista da parte delle forze irachene e siriane, in vista della
perdita dei territori, l’Isis trasferisce fondi all’estero per sovvenzionare i
suoi membri mediante flussi migratori, money transfer e Internet. Altri metodi per recuperare denaro sono
l’imposizione dell’uso della valuta del califfato (dinaro), l’aumento del
prezzo dei pezzi archeologici, l’inserimento nei traffici di eroina
dall’Afghanistan, la tassa zakat e la vendita di prodotti agricoli.
Una strategia militare basata su tunnel, veicoli che
simulano quelli militari per confondere il nemico convogliandone tempo ed
energia su falsi obiettivi, uso limitato di droni e armi chimiche. Nel tempo i
terroristi hanno imparato a sfruttare le tattiche più sfuggenti, semplici ed
economiche per far fronte alla superiorità militare e numerica dell’avversario
e colpirlo fuori dal campo di battaglia che, nella sua accezione più comune,
perde gran parte del suo significato.
Si è pervenuti ad una strategia flessibile in grado di
adattarsi alle condizioni tattiche delle aree in cui si opera, all’uso del
terrorismo come strumento per la realizzazione di uno scopo politico, legato
con un fenomeno più ampio di un’insurrezione jihadista. Si punta a investimenti
ridotti per risultati pratici o mediatici notevoli come i veicoli bomba rubati
e modificati con materiale di recupero, versione economica dei ben più costosi
Tomahawk americani (dal costo di oltre 600.000 dollari). Le tattiche militari
come attacchi suicidi e stragi di massa, spesso in luoghi scarsamente
controllati, sono facili da portare a termine e non richiedono particolari
accorgimenti.
Un’ultima considerazione: il terrorismo va posto in
relazione al progetto politico di sovversione dell’ordine regionale di alcune
aree del Mediterraneo per radicarsi sul territorio con forme di conflitto più
sfumate e ibride connesse a fenomeni bellici di lunga durata. In un mondo in
continuo cambiamento, anche l’Isis muta forma per adattarsi a ciò che la
circonda, cercando di soffocare il mondo in una cappa di paura e sospetto,
quello che però non deve mutare è la volontà dei governi di collaborare e
comprendere i mutamenti per tentare di prevenire e argine un fenomeno dai
contorni sempre più sfuggenti.
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