Questa
storia può somigliare a una storia come tante. Meschina e vile come di continuo
se ne sentono, ma di una meschinità aberrante, e per questo meno insulsa e più indigesta.
Un
vecchio, a cui puntualmente viene rubata la pensione, in un agguato appena fuori
l’ufficio postale, a circa trecento metri da casa propria. Uno di quei vecchi
che non hanno confidenza con certe diavolerie moderne che chiamano carte
bancomat o peggio ancora “chiavette”, che ti dovrebbero aprire le porte del
conto, più o meno come Mosè apriva le acque, ma che, delle volte, lasciano
entrare pure i pirati.
Ringhiava come un dannato, il bastardo, sempre più inferocito. E non voleva saperne di spostarsi né di lasciarmi proseguire il cammino. Rimasi immobile per qualche minuto. Poi, compresi che non intendeva mordermi, che di azzannarmi non aveva intenzione alcuna: l’avrebbe fatto subito, sin dal primo momento, o nei minuti successivi. Non erano le mie carni che voleva. Non la mia coscia, né il mio polpaccio, smagrito e poco appetibile, né il mio tallone dentro la grossa scarpa. Che diamine voleva allora? Cosa?! Non possedevo nulla, e nulla avevo lì con me di succulento: né le borse della spesa, né il pane caldo e croccante del mattino, e neppure le bistecche che il macellaio mi teneva da parte il venerdì. Niente.
I soldi. Quello avevo. Il gruzzolo della pensione appena prelevato, la mazzetta gonfia e tornita come un fuso di pollo, rintanata al caldo dentro la tasca della mia giacca. Possibile?! che volesse “quello”? che assurdità! che baggianata stratosferica! E invece, era proprio “quello” che lui voleva. Quello e nient’altro che quello reclamava, terrorizzandomi coi suoi denti affilati, col minaccioso rumore del suo ringhio crescente, con quel muso sempre più raggrinzito e sporco di bava.
Fallimento dopo fallimento, aggressione dopo aggressione e furto dopo furto, mi ridussi all’osso: nessuno mi faceva più credito, fui individuato e additato come “moroso” all’interno del mio vecchio condominio, e per colmo di sventura, arrivarono a tagliarmi la luce, cosa che mi portò a dover fare a meno del frigorifero. E del mio climatizzatore, il solo che possedevo, quello che un paio d’anni prima avevo fatto installare nella mia camera da letto, unico rimedio efficace contro l’afa estiva.
Fu un inferno! Un inferno autentico! Soffrii come un cane, soprattutto nel mese di agosto; mi ridussi a dormire sul pavimento, e a bagnarmi la testa di continuo sotto il getto dell’acqua corrente, per trovare un poco di sollievo, incurante delle conseguenze sulle mie vecchie ossa malaticce, e sulla mia artrosi cervicale.
L’avarizia aguzza l’ingegno almeno quanto il bisogno, pensai. Decisi di provare. In ogni caso, non avevo scelta. Mi documentai, nei giorni che seguirono, senza fare altro, dimenticando di nutrirmi, dimenticando di bere. Portai avanti numerose ricerche sull’ipnosi e sulle diverse tecniche sperimentate negli anni, in diversi Paesi; consultai manuali e dispense. Mi appassionai all’argomento, alla fine. Ne rimasi affascinato.
Era il primo di novembre, vigilia della commemorazione dei defunti, e di tanto in tanto il pensiero tornava a mia moglie, a Carmela, al fatto che in quella sventurata circostanza non avrei potuto neppure comprare un fiore da portarle al cimitero, come ero solito fare.
Prima di sera, aprii l’ultima scatoletta di tonno rimasta dentro la dispensa, e la divisi con Ben, che mangiò a piccolissimi morsi, direttamente dal palmo della mia mano.
L’ufficio postale riaprì l’indomani, e io, pieno di rabbia, di paura e di speranza insieme, mi avviai, ripetendo nella mente le poche parole che avrei pronunciato davanti a lui, davanti a quel cane malvagio, avanzo e residuo d’inferno, al momento della consueta aggressione. Le parole, o dovrei dire le “formule magiche” che mi avrebbero aiutato ad affrancarmi, a liberarmi dalla tirannia, a ridiventare padrone della mia vita, dei miei soldi, e di me stesso, finalmente.
Pregustavo la mia vendetta, immaginando la scena: il cane si sarebbe piantato lì, davanti a me, col suo ringhio dannato, come al solito; io avrei tirato fuori la mazzetta, lanciandola verso il suo muso bavoso, lui l’avrebbe afferrata tra le fauci e io a quel punto l’avrei guardato fisso negli occhi, ordinando a chiare lettere: “Mangiati i soldi! Mangiati i soldi, ORA! MANGIATI I SOLDI TI HO DETTO!!”
E lui, non riuscendo a sottrarsi a quel comando imperioso, li avrebbe divorati, facendo scorrere i frammenti della carta da una parte all’altra della bocca, e nelle fessure in mezzo ai denti. Li avrebbe ingoiati, le proprie viscere li avrebbero inglobati senza più restituirli, i succhi gastrici li avrebbero annientati e distrutti.
Avrebbe fatto tutto ciò, quel cane, alla fine, pur non volendolo. E lo avrebbe fatto piangendo, e latrando penosamente e lamentandosi ... E proprio allora, proprio nel momento di sua maggior debolezza, finalmente reso inoffensivo e vulnerabile, io l’avrei afferrato, sì, con tutte e due le mani, gli avrei infilato il muso dentro a un sacco che avrei legato strettamente con un pezzo di spago, e dopo averlo preso a calci, sul culo e sui fianchi, come meritava, lo avrei condotto a forza dentro al primo commissariato di Polizia, dove avrebbe avuto la giusta punizione per i suoi crimini, la giusta pena.
E così avvenne. Per grandi linee, fu quello che realmente capitò, quel due di novembre di quell’anno disgraziato. A me e a lui.
Tornai
a casa che era quasi sera, mi gettai sul letto e mi addormentai di colpo, come
uno che non riposa da secoli. Avevo ritrovato il sonno, finalmente, e
l’indomani recuperai pure l’appetito.
Ben si sistemò accanto a me, poggiando il muso sulle mie ginocchia, di tanto in tanto leccandomi le dita delle mani, cosa che non faceva quasi mai, forse in segno di gratitudine. O forse per darmi, a modo suo, conforto.
Nei giorni successivi gli infermieri del reparto mi somministrarono pasti caldi e medicine, si presero cura della mia persona, come soltanto ma moglie aveva fatto, fino ad allora. I compagni di stanza mi accolsero più o meno come un familiare, o come un amico ritrovato, raccontandomi ciascuno la propria storia, ascoltando con interesse e partecipazione la mia, facendomi sentire di nuovo “umano”, insomma.
Poi, arrivarono i medici. Gli esiti delle analisi erano accettabili, quello che risultava “a rischio”, dicevano loro, era il mio “stato mentale”.
Per prima cosa, sottoposero alla mia attenzione una quantità imbarazzante di immagini: libri di favole con illustrazioni di lupi; fotografie di uomini molto pelosi, con barboni spaventosi o col petto villoso in bella mostra; ritratti di donne dai baffetti scuri in primissimo piano, e persino piccole sculture di gambe femminili NON depilate.
Nei giorni successivi, mi presentarono una lavagnetta scura, con una serie di gessetti bianchi e colorati, e mi chiesero di disegnarvi un animale, uno qualunque. Mi domandarono, infine, quali fossero le mie imprecazioni più frequenti. E quali erano state, in passato, le mie letture di fumetti preferite.
Arrivammo a parlare di Ben, il barboncino che io e mia moglie Carmela avevamo raccolto e salvato dalla strada, quello che ancora abitava dentro casa mia, quello di cui cercavo, nonostante le mille difficoltà, di prendermi cura. Saltò fuori, dalle mie “dichiarazioni”, che il cane non usciva quasi più, a malapena lo faceva per i bisogni “grossi”, e non più di una volta al giorno.
Cercai di spiegare in vari modi, e con il più pacato dei toni, che il cambiamento era avvenuto dopo la morte improvvisa di mia moglie, a cui Ben era particolarmente legato, e che invano, da allora e nei mesi successivi, avevo cercato di convincerlo a riprendere le consuete passeggiate nel parco: Ben si rifiutava, si rifiutava tutte le volte, puntando i piedi, o dovrei dire le zampe, lamentandosi come fosse un bambino che si abbandona al pianto. Non avendo la forza né la voglia di usargli violenza, considerata anche la sua età non più giovane, dopo un certo tempo rinunciai. Era la verità, e questo dissi. Per me, non c’era nulla di strambo o patologico.
Che cosa stava accadendo, mi chiesi. Non c’era che un modo per scoprirlo: andare, recarsi all’appuntamento entrambi, rispettare l’orario stabilito.
- State scherzando, spero …
- No, signor Razzi, non siamo qui a giocare o a perdere tempo, noi. E le consiglio, in tutta franchezza di non aggravare la sua situazione.
Intervenne l’altro medico, quello con la penna in mano, quello più giovane:
- Veda, caro signore, tutto ciò è necessario, se le stanno a cuore il bene e la salute mentale del suo cane. Veda, si tratta di una terapia, per aiutare il suo animale a superare la paura dello spazio esterno: se lei che è il padrone, o il capobranco se vogliamo, marca il territorio con la sua pipì, ebbene, il suo cane capirà che si tratta di uno spazio sicuro, che non vi sono pericoli, e urinando a sua volta, supererà la paura.
Realizzai finalmente ciò che mi stava accadendo, dopo essere rimasto inebetito per non so quanti minuti, davanti a quei due idioti che mi intimavano di pisciare lì davanti a tutti, che mi parlavano di terapie “necessarie”, di cure e di rimedi, come se stessero parlando di un prelievo del sangue, o di una semplice radiografia …
Mi misi a urlare, lì davanti a tutti. Urlavo e imprecavo come un forsennato, contro quei due BUFFONI PAZZI FURIOSI DA MANICOMIO E INFAMI PERVERTITI, e continuai bestemmiando senza ritegno, quindi mi attaccai al collo di uno dei due, mentre l’altro cercava di divincolarsi, sfuggendo alla presa di Ben che gli teneva saldamente tra i denti il polpaccio, ringhiando come mai aveva fatto in vita sua, quel mio cane fin troppo mite. Fino a che non intervenne una volante della Polizia, che ci riportò in commissariato, questa volta per una denuncia contro di me, questa volta per punire la mia persona.
Mi
fecero intendere chiaramente che l’unico modo per venire fuori da tutto ciò,
per chiudere una volta e per sempre quella orrenda, bruttissima faccenda, era
inviare delle scuse scritte e formali ai due medici “aggrediti”, ritirare la
denuncia che avevo sporto contro il bastardo che per mesi mi aveva derubato,
impegnarmi in un programma “assistito” per la SUA riabilitazione, e in
un’attività di volontariato da svolgere presso un canile. E pagare una multa,
infine.
Tirai fuori dalla tasca della mia giacca la mazzetta con i soldi, finalmente dentro casa, finalmente AL SICURO! Poggiai le banconote sulla scrivania del mio studio e, prima di riporle dentro al solito cassetto, nell’apposita scatola di latta da sempre destinata allo scopo, corsi in bagno a fare la pipì, che troppo a lungo, quella mattina, avevo trattenuto. Sarà stata l’emozione, o sarà stato il freddo … Ci mancava poco e me la facevo addosso. Arrivai a urinare dentro la tazza per un pelo. Quando tornai nello studio, per conservare i soldi, mi accorsi che questi non c’erano più, che non erano lì dove li avevo lasciati.
Mi si annebbiò la vista, e per qualche istante sentii venirmi meno le forze.
Cosa .... Come.
Un
vecchio, l’unico forse a cui è toccato farsi fregare in un modo così infamante,
peggio di uno scippo subìto per strada, di quelli che ti fanno cadere giù in
terra e ti lasciano lì mezzo morto e col femore spaccato. Beffato dalla sorte
più di quanto sia umanamente possibile tollerare, insomma. Sono io.
La
prima volta mi successe il due di febbraio. E, giuro, una cosa tanto orribile
non mi era mai accaduta prima, né avevo mai sentito nulla di simile. In coda
alle Poste, insieme ad altri pensionati, aspettavo che arrivasse il mio turno,
mi preparavo ad incassare quanto mi era mensilmente dovuto per i miei
quarant’anni di onorato servizio. Due banconote da cento ed il resto in numerosi
pezzi da cinquanta e da venti, un discreto gruzzoletto da infilare con cura
dentro la tasca della mia giacca scura, quella coi petti larghi dalle punte
rivolte verso l’alto. Uscii, finalmente, da quel locale affollato, approdai al
marciapiede di fronte attraversando la strada lungo le strisce sbiadite. E di
colpo mi fermai: un cane, dal pelo maculato e malconcio, mi si era parato
davanti all’improvviso, ringhiando da far paura e sbarrandomi il passaggio. Il
muso riccio come una foglia accartocciata, i peli del collo dritti come spine,
i denti aguzzi simili ad uncini.
Che
vuole questo? Terrore e incredulità. Sorpresa. Che vuole?! E soprattutto, da
dove sbuca? Non mi pareva di aver mai visto cani randagi, o abbandonati, nel
quartiere. Solo qualche gatto, qua e là, a caccia di scarti di cibo, in giro
per i mercati.
Cani,
pochi. E randagi, neppure uno. Tutti quanti erano muniti di collare e
guinzaglio, o di pettorina, e camminavano con padrone al seguito.Ringhiava come un dannato, il bastardo, sempre più inferocito. E non voleva saperne di spostarsi né di lasciarmi proseguire il cammino. Rimasi immobile per qualche minuto. Poi, compresi che non intendeva mordermi, che di azzannarmi non aveva intenzione alcuna: l’avrebbe fatto subito, sin dal primo momento, o nei minuti successivi. Non erano le mie carni che voleva. Non la mia coscia, né il mio polpaccio, smagrito e poco appetibile, né il mio tallone dentro la grossa scarpa. Che diamine voleva allora? Cosa?! Non possedevo nulla, e nulla avevo lì con me di succulento: né le borse della spesa, né il pane caldo e croccante del mattino, e neppure le bistecche che il macellaio mi teneva da parte il venerdì. Niente.
I soldi. Quello avevo. Il gruzzolo della pensione appena prelevato, la mazzetta gonfia e tornita come un fuso di pollo, rintanata al caldo dentro la tasca della mia giacca. Possibile?! che volesse “quello”? che assurdità! che baggianata stratosferica! E invece, era proprio “quello” che lui voleva. Quello e nient’altro che quello reclamava, terrorizzandomi coi suoi denti affilati, col minaccioso rumore del suo ringhio crescente, con quel muso sempre più raggrinzito e sporco di bava.
Tremante,
infilai le dita della mia mano destra dentro la tasca. Tirai fuori i soldi, li
strinsi per qualche istante dentro il pugno serrato, sfogando in quel vano
gesto la rabbia e la frustrazione per quanto mi stava accadendo. Proprio a me!
Lasciai cadere il gruzzolo per terra, poco lontano dai miei piedi, in direzione
di lui, del cane. E il cane l’afferrò, lo prese tra le fauci e corse dal lato
opposto della strada. Scomparve, in
pochi attimi. Io, dal canto mio, mi voltai ad osservare la gente intorno a me:
dietro, a sinistra, a destra, e poi di nuovo dietro di me, alle mie spalle … Nessuno
pareva aver fatto caso al fattaccio.
Lui,
il bastardo, prima di scomparire, si era girato a guardarmi, invece. E se non
fosse che i cani NON ridono, com’è risaputo, avrei detto che in quel preciso
momento, quello là se la faceva sotto dalle risate.
II
Tirai
a campare per le quattro settimane che seguirono, fino al primo del mese
successivo, prelevando dalla scatola delle “riserve” il denaro necessario alla
mia sussistenza. Tagliando sulle spese superflue: il cinema il martedì
pomeriggio, il caffè al bar, la settimana enigmistica, il babà dopo il pranzo
domenicale.
Eliminai
anche le scatolette con la mousse di pollo, cibo preferito da Ben, il mio
barboncino, che solitamente usavo per premiarlo degli sforzi fatti per uscire;
cosa che dopo la morte di mia moglie, gli risultava sempre più difficile e
sgradita.
Il
problema si ripropose nel mese di marzo. E il mese dopo ancora. Stesso cane,
stessa modalità di aggressione, stesso furto. Mi trovai in difficoltà serie.
Furono mesi di stenti e di privazioni mai vissute. Via via ritardai nel pagamento
delle spese condominiali a scadenza fissa, e delle bollette dell’acqua, del gas
e della luce. Quindi cominciai a prendere a credito la carne dal solito
macellaio e la frutta dall’ortolano di fiducia, così come le uova dal contadino
ambulante, e persino il pane e la farina dal fornaio.
Passavo
le notti, insonni, a cercare di mettere a punto strategie per sfuggire agli
agguati di quel cerbero; strategie che si rivelarono, di volta in volta, del
tutto vane: a nulla valevano i tentativi di camuffarmi (con cappello,
impermeabile, e occhiali da sole scuri), o di cambiare percorso scegliendo
“scorciatoie” e deviazioni improbabili, nel tragitto dall’ufficio postale verso
casa. Lui era lì, sempre, ogni volta un po’ più vicino alla mia abitazione,
inesorabile come la morte, o come un esattore delle tasse; puntuale come
l’infermiere che giungeva fin dentro la mia camera per la quotidiana (e
dolorosissima) iniezione cui venivo sottoposto, spesso e volentieri, da
bambino. Era lì. Inutile e inutilmente ridicolo cercare di ingannarlo, o
illudersi di riuscire a distoglierlo dal proprio obiettivo. Neppure con della
carne! Della carne vera, del tritato di maiale e di manzo, di quello che
farebbe gola al più viziato e satollo dei cani! Niente! Fallimento dopo fallimento, aggressione dopo aggressione e furto dopo furto, mi ridussi all’osso: nessuno mi faceva più credito, fui individuato e additato come “moroso” all’interno del mio vecchio condominio, e per colmo di sventura, arrivarono a tagliarmi la luce, cosa che mi portò a dover fare a meno del frigorifero. E del mio climatizzatore, il solo che possedevo, quello che un paio d’anni prima avevo fatto installare nella mia camera da letto, unico rimedio efficace contro l’afa estiva.
Fu un inferno! Un inferno autentico! Soffrii come un cane, soprattutto nel mese di agosto; mi ridussi a dormire sul pavimento, e a bagnarmi la testa di continuo sotto il getto dell’acqua corrente, per trovare un poco di sollievo, incurante delle conseguenze sulle mie vecchie ossa malaticce, e sulla mia artrosi cervicale.
Prima
di decidermi ad impegnare l’orologio di famiglia, tramandato fino a me da
generazioni (la fede nuziale mai! quella mai l’avrei ceduta! a costo di
saldarmela al dito...), provai a chiedere un prestito a Nicola, l’unico amico
che mi era rimasto, dopo la morte della mia Carmela. Mi feci coraggio e andai a
trovarlo una sera. Nicola, vecchio compagno di scuola, amico di gioventù,
testimone delle mie nozze, del cui figlio primogenito avevo accettato di
diventare il padrino, il padrino di Cresima … Mi disse di no, pure lui, sebbene
in modo diplomatico e facendo sfoggio di un finto rammarico. S’inventò qualche
storia poco credibile: l’improvvisa malattia del suo gatto e gli onorari
“salati” del veterinario, il mutuo che gli era “aumentato di botto”, le
parcelle dei due avvocati che aveva dovuto nominare per difendersi da una
denuncia capitatagli tra capo e collo. E altro ancora. Tutte scuse. Una
peggiore dell’altra. Non mi elargì neppure un centesimo, alla fine, il
disgraziato. Non lo commossero il mio aspetto emaciato, le mie palpebre gonfie
di sonno e di pianto, la mia voce a tratti tremante, per lo sconforto. Mi diede
un consiglio, però, prima di congedarmi da casa sua. Me lo sussurrò all’orecchio,
sulla soglia del suo appartamento e con la porta d’ingresso semichiusa, mentre
mi infilava nella tasca della giacca un tovagliolo con degli avanzi di cibo,
dall’odore nauseabondo:
-
Prova con l’ipnosi, Mario! Con quel cane … Prova e vedrai. Sarai stupito! Non
sai quanti problemi che mi parevano impossibili ho risolto, in questi ultimi
anni, proprio grazie a questo.L’avarizia aguzza l’ingegno almeno quanto il bisogno, pensai. Decisi di provare. In ogni caso, non avevo scelta. Mi documentai, nei giorni che seguirono, senza fare altro, dimenticando di nutrirmi, dimenticando di bere. Portai avanti numerose ricerche sull’ipnosi e sulle diverse tecniche sperimentate negli anni, in diversi Paesi; consultai manuali e dispense. Mi appassionai all’argomento, alla fine. Ne rimasi affascinato.
Un
pomeriggio mi addormentai, persino, dentro i locali della biblioteca comunale, e due impiegati
furono costretti a scuotermi e ad urlarmi dentro l’orecchio per farmi
svegliare.
Giunse
il primo di novembre, giorno festivo, ma non per me. Mi chiusi in casa per
tutto il giorno, e mi esercitai, mi esercitai per ore davanti allo specchio del
bagno. Lavorando sul tono della voce, sui movimenti delle labbra e sullo
sguardo. Sullo sguardo, soprattutto.Era il primo di novembre, vigilia della commemorazione dei defunti, e di tanto in tanto il pensiero tornava a mia moglie, a Carmela, al fatto che in quella sventurata circostanza non avrei potuto neppure comprare un fiore da portarle al cimitero, come ero solito fare.
Prima di sera, aprii l’ultima scatoletta di tonno rimasta dentro la dispensa, e la divisi con Ben, che mangiò a piccolissimi morsi, direttamente dal palmo della mia mano.
L’ufficio postale riaprì l’indomani, e io, pieno di rabbia, di paura e di speranza insieme, mi avviai, ripetendo nella mente le poche parole che avrei pronunciato davanti a lui, davanti a quel cane malvagio, avanzo e residuo d’inferno, al momento della consueta aggressione. Le parole, o dovrei dire le “formule magiche” che mi avrebbero aiutato ad affrancarmi, a liberarmi dalla tirannia, a ridiventare padrone della mia vita, dei miei soldi, e di me stesso, finalmente.
Pregustavo la mia vendetta, immaginando la scena: il cane si sarebbe piantato lì, davanti a me, col suo ringhio dannato, come al solito; io avrei tirato fuori la mazzetta, lanciandola verso il suo muso bavoso, lui l’avrebbe afferrata tra le fauci e io a quel punto l’avrei guardato fisso negli occhi, ordinando a chiare lettere: “Mangiati i soldi! Mangiati i soldi, ORA! MANGIATI I SOLDI TI HO DETTO!!”
E lui, non riuscendo a sottrarsi a quel comando imperioso, li avrebbe divorati, facendo scorrere i frammenti della carta da una parte all’altra della bocca, e nelle fessure in mezzo ai denti. Li avrebbe ingoiati, le proprie viscere li avrebbero inglobati senza più restituirli, i succhi gastrici li avrebbero annientati e distrutti.
Avrebbe fatto tutto ciò, quel cane, alla fine, pur non volendolo. E lo avrebbe fatto piangendo, e latrando penosamente e lamentandosi ... E proprio allora, proprio nel momento di sua maggior debolezza, finalmente reso inoffensivo e vulnerabile, io l’avrei afferrato, sì, con tutte e due le mani, gli avrei infilato il muso dentro a un sacco che avrei legato strettamente con un pezzo di spago, e dopo averlo preso a calci, sul culo e sui fianchi, come meritava, lo avrei condotto a forza dentro al primo commissariato di Polizia, dove avrebbe avuto la giusta punizione per i suoi crimini, la giusta pena.
E così avvenne. Per grandi linee, fu quello che realmente capitò, quel due di novembre di quell’anno disgraziato. A me e a lui.
III
Dovevo
comprare qualcosa, qualcosa da mangiare, da mettere sotto i denti, da cucinare
… da digerire. A tutti i costi. Dovevo pensare anche a Ben, provvedere a lui
come avrebbe fatto qualsiasi padre, seppure adottivo. Lungo le vie del
quartiere, però, la realtà mi si impose con forza davanti agli occhi,
attraverso gli sguardi sfuggenti e imbarazzati dei bottegai del quartiere,
pronti ad abbassare la fronte, oppure a voltare la faccia dall’altro lato, al
mio passaggio.
Mi
feci avanti comunque, con coraggio, violentando la mia naturale riservatezza,
prima dal macellaio, poi dall’ortolano e poi dal panettiere, animato da un
nuovo orgoglio e da una nuova energia, malgrado il mio fisico fosse debilitato
dal digiuno e dallo scoramento dei giorni passati.
Raccontai
l’accaduto, li supplicai di farmi ancora credito, in attesa che la pensione di
dicembre, comprensiva di tredicesima, mi permettesse di saldare i conti, e di
rimborsarli, infine, tutti quanti,
aggiungendo alla cifra dovuta PURE gli interessi, se lo avessero ritenuto
necessario. Ma ottenni in cambio poca roba.
Mi
trascinai fino al mio appartamento, con in mano il sacchetto contenente le
poche provviste, che decisi di cedere a Ben: non avvertivo più la fame, né il
desiderio di stimolare l’appetito. Volevo solo stendermi, sul mio letto oppure
sul divano, coprirmi le gambe, riscaldarmi le ossa, assopirmi, dormire. Ben si sistemò accanto a me, poggiando il muso sulle mie ginocchia, di tanto in tanto leccandomi le dita delle mani, cosa che non faceva quasi mai, forse in segno di gratitudine. O forse per darmi, a modo suo, conforto.
Quando
mi accorsi, qualche ora dopo, che qualcosa di strano e di terribile stava
accadendo all’interno del mio organismo, mi decisi a chiamare un’ambulanza. E
fui ricoverato in ospedale.
Non
sarebbe stato poi così male, pensai mentre mi trasportavano, quel ricovero che
in passato avevo tanto temuto: almeno lì avrei potuto mangiare.Nei giorni successivi gli infermieri del reparto mi somministrarono pasti caldi e medicine, si presero cura della mia persona, come soltanto ma moglie aveva fatto, fino ad allora. I compagni di stanza mi accolsero più o meno come un familiare, o come un amico ritrovato, raccontandomi ciascuno la propria storia, ascoltando con interesse e partecipazione la mia, facendomi sentire di nuovo “umano”, insomma.
Poi, arrivarono i medici. Gli esiti delle analisi erano accettabili, quello che risultava “a rischio”, dicevano loro, era il mio “stato mentale”.
Per prima cosa, sottoposero alla mia attenzione una quantità imbarazzante di immagini: libri di favole con illustrazioni di lupi; fotografie di uomini molto pelosi, con barboni spaventosi o col petto villoso in bella mostra; ritratti di donne dai baffetti scuri in primissimo piano, e persino piccole sculture di gambe femminili NON depilate.
Nei giorni successivi, mi presentarono una lavagnetta scura, con una serie di gessetti bianchi e colorati, e mi chiesero di disegnarvi un animale, uno qualunque. Mi domandarono, infine, quali fossero le mie imprecazioni più frequenti. E quali erano state, in passato, le mie letture di fumetti preferite.
Arrivammo a parlare di Ben, il barboncino che io e mia moglie Carmela avevamo raccolto e salvato dalla strada, quello che ancora abitava dentro casa mia, quello di cui cercavo, nonostante le mille difficoltà, di prendermi cura. Saltò fuori, dalle mie “dichiarazioni”, che il cane non usciva quasi più, a malapena lo faceva per i bisogni “grossi”, e non più di una volta al giorno.
Cercai di spiegare in vari modi, e con il più pacato dei toni, che il cambiamento era avvenuto dopo la morte improvvisa di mia moglie, a cui Ben era particolarmente legato, e che invano, da allora e nei mesi successivi, avevo cercato di convincerlo a riprendere le consuete passeggiate nel parco: Ben si rifiutava, si rifiutava tutte le volte, puntando i piedi, o dovrei dire le zampe, lamentandosi come fosse un bambino che si abbandona al pianto. Non avendo la forza né la voglia di usargli violenza, considerata anche la sua età non più giovane, dopo un certo tempo rinunciai. Era la verità, e questo dissi. Per me, non c’era nulla di strambo o patologico.
IV
Fui
dimesso due settimane dopo, mi arrangiai con le scatolette di cibo che avevo
prelevato dai carrelli dell’ospedale, e che avevo trafugato cautamente tra le
mie cose, nei giorni della mia degenza.
Aspettavo
il primo di dicembre come si attenderebbe il giorno del Giudizio, se si avesse
una data certa.
Ben
mi accolse con uno scodinzolare moderato. Lo trovai ancora più emaciato (il
custode, a cui avevo affidato le chiavi di casa, giurava di avergli dato da
mangiare almeno una volta al dì: pasta e tritato di carne, di secondo taglio! e
a sue spese!)
Cercammo
di riprendere una vita “normale”. Ma ricevetti un telegramma. Una
“comunicazione” dal contenuto tanto succinto quanto misterioso: un incontro era
stato fissato, per il lunedì successivo, alle ore 15.00, nel parco antistante
l’ingresso dell’ospedale presso il quale ero stato ricoverato. Una cosa mi
stupì più di tutte: era convocato anche il cane. Pure Ben! E perché mai?Che cosa stava accadendo, mi chiesi. Non c’era che un modo per scoprirlo: andare, recarsi all’appuntamento entrambi, rispettare l’orario stabilito.
Avrei
dovuto faticare per convincere Ben, avrei dovuto trascinarlo a forza, oppure
coprirgli gli occhi con un foulard scuro, come si fa con certi cavalli perché
non s’impauriscano davanti a una situazione di pericolo.
Insomma,
per farla breve, avrei “dovuto”. E “dovetti”, infine.
Giungemmo
lì, in qualche modo. Due medici in camice bianco ci attendevano in piedi, uno
con la cartella tenuta saldamente sotto il braccio, l’altro con una penna in
mano. Mi salutarono appena.
Si
chinarono entrambi ad osservare attentamente il mio animale, che indietreggiava
nascondendo il muso dietro l’incavo delle mie ginocchia. Poi uno dei due mi
ordinò: “Prego, signor Razzi, apra la
zip dei suoi pantaloni.”
Finsi
di non aver capito e chiesi di ripetere, con gli occhi sgranati.
-
Allora signor Razzi, visto che evidentemente lei NON intende collaborare, le
spiegheremo in breve cosa faremo qui oggi: le chiederemo di urinare qui, su
questo pubblico terreno... Qui, all’aria
aperta, e in nostra presenza, mia e del collega. Ma soprattutto alla presenza
del suo cane.- State scherzando, spero …
- No, signor Razzi, non siamo qui a giocare o a perdere tempo, noi. E le consiglio, in tutta franchezza di non aggravare la sua situazione.
Intervenne l’altro medico, quello con la penna in mano, quello più giovane:
- Veda, caro signore, tutto ciò è necessario, se le stanno a cuore il bene e la salute mentale del suo cane. Veda, si tratta di una terapia, per aiutare il suo animale a superare la paura dello spazio esterno: se lei che è il padrone, o il capobranco se vogliamo, marca il territorio con la sua pipì, ebbene, il suo cane capirà che si tratta di uno spazio sicuro, che non vi sono pericoli, e urinando a sua volta, supererà la paura.
Così
come dovrà superarla LEI, una buona volta, LA PAURA DEI CANI!! Di quelli che
non conosce, soprattutto, di quelli che crede “cattivi” …
Certo
- continuò l’altro, il più anziano dei due - bisognerà ripetere più volte la
terapia, oggi è solo il primo degli incontri … Avanti, non perdiamo altro
tempo, vedo che il cane già si spazientisce. Forza, lo tiri fuori e faccia,
insomma! Che ci vuole! Sarà capace, no?!Realizzai finalmente ciò che mi stava accadendo, dopo essere rimasto inebetito per non so quanti minuti, davanti a quei due idioti che mi intimavano di pisciare lì davanti a tutti, che mi parlavano di terapie “necessarie”, di cure e di rimedi, come se stessero parlando di un prelievo del sangue, o di una semplice radiografia …
Mi misi a urlare, lì davanti a tutti. Urlavo e imprecavo come un forsennato, contro quei due BUFFONI PAZZI FURIOSI DA MANICOMIO E INFAMI PERVERTITI, e continuai bestemmiando senza ritegno, quindi mi attaccai al collo di uno dei due, mentre l’altro cercava di divincolarsi, sfuggendo alla presa di Ben che gli teneva saldamente tra i denti il polpaccio, ringhiando come mai aveva fatto in vita sua, quel mio cane fin troppo mite. Fino a che non intervenne una volante della Polizia, che ci riportò in commissariato, questa volta per una denuncia contro di me, questa volta per punire la mia persona.
Ero
un vecchio, ma un vecchio colpevole di essersi difeso, rifiutando con forza di
sottoporsi alla vergogna. Rifiutando di “tirarlo fuori”.
V
PAGARE?!
E con quali soldi? Con quale denaro, visto che non disponevo più di un
centesimo dal giorno in cui quel po-ve-ro cane sven-tu-ra-to mi aveva sottratto
per la prima volta la pensione, e in un modo così barbaro …
Venni
fuori da quel commissariato tenendo Ben quasi svenuto tra le braccia. Tornammo
a casa (a piedi, sotto la pioggia
battente) dove passarono ore prima lui che si rianimasse.
Quindi uscii di nuovo e mi diressi verso la mia
banca, deciso a ipotecare la casa, l’appartamento mio e di Carmela, pur di
ottenere un prestito. Scelta inevitabile oramai. L’unica rimasta e l’unica
possibile.
Passarono
i giorni, giunse il tanto agognato primo di dicembre, giorno in cui avrei
potuto riscuotere FINALMENTE la MIA pensione e la MIA tredicesima.
Avevo
assoldato, per l’occasione, una specie di guardia privata che mi avrebbe
scortato dall’ufficio postale fino alla soglia del mio appartamento, per la
“modica” cifra di cento euro, concordata dopo lunghe trattative.
Tutto
andò bene. Nonostante i miei timori continuassero ad angosciarmi lungo la via
del ritorno. Congedai l’energumeno, dopo averlo pagato (altro piccolo furto), a
malincuore, e masticando amaro. Tirai fuori dalla tasca della mia giacca la mazzetta con i soldi, finalmente dentro casa, finalmente AL SICURO! Poggiai le banconote sulla scrivania del mio studio e, prima di riporle dentro al solito cassetto, nell’apposita scatola di latta da sempre destinata allo scopo, corsi in bagno a fare la pipì, che troppo a lungo, quella mattina, avevo trattenuto. Sarà stata l’emozione, o sarà stato il freddo … Ci mancava poco e me la facevo addosso. Arrivai a urinare dentro la tazza per un pelo. Quando tornai nello studio, per conservare i soldi, mi accorsi che questi non c’erano più, che non erano lì dove li avevo lasciati.
Mi si annebbiò la vista, e per qualche istante sentii venirmi meno le forze.
Subito
dopo mi resi conto che la finestra era
aperta: sul davanzale c’era un grosso uccello dalle lunghe piume nere, dal cui
becco fuoriuscivano, ben visibili, i bordi delle mie banconote!
Pochi
secondi ancora, pochi sguardi increduli, pochi rapidi pensieri, e l’uccello prese il volo, fuggendo via col
MIO denaro!
Senza
riflettere piegai tre dita della mia mano destra, mignolo medio e anulare, e
puntai l’indice, perpendicolare al pollice leggermente arcuato e volto
all’indietro, contro l’animale che mi derubava, quello che mi avrebbe, ancora
una volta, lasciato nella miseria più profonda; che, come l’altro, sarebbe
rimasto impunito. E sparai, senza pensarci, sparai due colpi, uno di seguito
all’altro, che il maledetto riuscì a schivare, zigzagando nell’aria ... Finché
non cadde, precipitando al suolo al momento esatto del mio terzo sparo. Il
terzo ed ultimo sparo, quello che non mi tradì, quello che risultò infallibile.
Aprii
le dita della mano, che lasciai cadere come un corpo morto lungo il mio fianco
destro, soddisfatto, ma esausto. E mentre mi accingevo a scavalcare il
davanzale della mia finestra, per andare a recuperare i soldi, sparsi in più
punti come i pezzetti del volatile spiaccicato sull’asfalto, mi domandai, senza
neppure far caso ai sei piani che mi dividevano dalla strada: dove potrò mai
nascondere, affinché non venga ritrovata, l’arma del delitto? E come potrò mai
difendermi da tutto ciò, questa volta, e cosa mai dovrò affrontare … Cosa .... Come.
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