di Enzo Barone
Al mio figlio maggiore non piacciono le verdure bollite e nemmeno la pasta coi funghi o la zuppa di cipolle e tante altre pietanze. Non è che le abbia provate e le abbia trovate disgustose. No, come tanti ragazzi si rifiuta per principio di assaggiarle. Mio figlio minore mangia o ha mangiato le verdure, la pasta coi funghi, la zuppa. Ha assaggiato queste e tante altre cose che piacciono a noi adulti e le ha giudicate appetitose, insipide o immangiabili, a seconda dei casi. Davanti alla richiesta reiterata almeno di provare questi cibi e valutare successivamente se valga la pena o meno di mangiarli il figlio maggiore oppone un rifiuto perentorio: so già che gusto hanno, so quindi che non mi piaceranno.
O meglio,
rigirando la questione, io ho i miei cibi preferiti, le mie certezze gustative
da cui traggo soddisfazione e compiacimento; sono contento così, perché dovrei
rischiare un’esperienza sensoriale deludente e rovinarmi il pranzo con qualcosa
che potrebbe non piacermi?
Non saprei trovare
esempio migliore di quello offertomi dal figlio più grande per capire e
valutare da un punto di vista originale cos’è la conoscenza aprioristica. E per
contrasto cos’è quella empirica. Benchè infatti possa sembrare impropria se
paragonata alla scelta di quanti nei secoli, teologi, filosofi, scienziati,
sapienti, artisti e persino cuochi o allenatori di calcio, hanno per principio
rifiutato di accettare un’ipotesi, un’idea nuova per non mettere in discussione
una verità, una posizione o uno stato di equilibrio, la metafora gastronomica mi
pare molto utile. La risposta con cui valido la mia scelta è chiara: io So, a
prescindere dalla mia esperienza sensoriale, che ciò che mi propongono di
mangiare non è di mio gusto, non è buono a sufficienza, secondo il mio giudizio,
è chiaro, ma nel campo delle pure esperienze sensistiche la soggettività è
l’assoluto. Io conosco cioè senza conoscere; o meglio io conosco in modo altro
rispetto a quello che tutti gli empiristi o i buongustai ci propinano: conosco
aprioristicamente, con l’intuito, forse un po’ con l’olfatto e la vista, con la
sensibilità, in base al bagaglio delle mie esperienze precedenti. Oppure
semplicemente So; in che modo non è cosa che ti riguardi: tanto ti basti.
Sarebbe semplicistico e
banalmente conformista far passare adesso per migliore, più sensata la scelta
che fa invece mio figlio minore, cioè quella di provare, di fare esperienza coi
sensi (e anche con l’intelletto, giacché non esiste esperienza sensibile che
non sia immediatamente pensiero) per conoscere alimenti e preparazioni che
potrebbero arricchire il suo vissuto gustativo, aggiungere colore e novità al
complesso dei suoi ricordi sensoriali. Ma è corretto relazionare, confrontare
due cose così inconciliabili come la conoscenza empirica e quella aprioristica non
sensibile? Se poi è per altri versi vero, come insegna Hegel, che ogni
principio genera automaticamente da sé la sua contraddizione, appare
perfettamente inutile chiedersi il senso di una posizione ponendosi dalla
prospettiva dell’altra. L’una si genera contemporaneamente dall’altra e con l’altra.
A poco serve sbattere in
faccia agli aprioristi di ogni risma l’esiguità attuale della loro compagine
(non troppo esigua comunque) e travolgerli con la piena tumultuosa dell’evoluzione
che ha avuto il pensiero scientifico, almeno dal Seicento ad oggi, con le
smisurate conquiste delle società positivistiche, con il ridicolo e le tenebre a
cui sono stati condannati oscurantisti, fideisti, ostinati, creazionisti e
difficili di gusto dal trionfo della civiltà basata sull’empiria.
La conoscenza
aprioristica è perfetta, bellissima nella sua purezza, nella sua ostinazione,
nella sua intangibilità monolitica. Ogni fede, ogni misticismo contempla una
quota ineliminabile e necessaria di apriorismo. L’assoluto stesso è per sua
stessa definizione concetto aprioristico. In fondo il non volersi sporcare il
gusto con un cibo potenzialmente nauseante, il non far perdere la loro sublime unicità
a quei pochi sapori apprezzabili ha un suo potente fascino. Io che ho la
conoscenza aprioristica per di più, come si diceva, e non credo nell’esperienza
come fonte di conoscenza, come potrei pertanto piegarmi ad un sistema di valori
basato su di essa? Perché dovrei turbare il mio assoluto sensoriale e valoriale
con la volgarità, lo scempio del relativo che l’accettazione stessa della prova
esperienziale comporta?
Questa è la strada degli
asceti e dei santi, ma anche di qualche fondamentalista islamico.
Ma non scambiamo però l’idea
della conoscenza aprioristica con l’ignoranza e l’intolleranza tout court. Le società scientiste moderne lo fanno troppo spesso e con una foga iconoclasta a
volte inopportuna. La scienza ha le sue regole, lo spirito altre.
E, capovolgendo il discorso,
l’empirista, chi prova per conoscere, invece di quale profonda soddisfazione
spirituale gode intimamente, oltre a quella puramente funzionale e all’approvazione
di quasi tutto il pensiero corrente? Forse semplicemente l’aver scelto di
scegliere e quindi in ultimo grado l’essersi assicurato in futuro il diritto di
giudicare il mondo sensibile?
E’ l’apriorista
intransigente - avvertendo una stretta al cuore - a percepire il vantaggio
potenziale di cui l’empirista gode a sua insaputa: se io assaggiassi quella
pietanza, quel cibo tante volte rifiutato e, una volta provato, esso dovesse piacermi
da matti, come dovrei considerare un fenomeno così nuovo se non un clamoroso
fallimento del mio sistema di pensiero, della mia filosofia di vita? Sono
pertanto condannato a rinchiudermi nel mio assolutismo refrattario e
intransigente da questo timore.
Non potrei quindi più recitare
per l’eternità la parte dell’apriorista i cui principi scintillano una purezza
inviolabile, ma rassegnarmi il venerdì sera alla minestra di cipolle per il
resto della mia vita, come tutti gli altri.
un pezzo 'delizioso'
RispondiEliminaciao
francesca