di Enzo Barone
I
fatti risalgono a qualche decennio fa. Ero giovane, idealista, integro. Vivevo
altrove, molto lontano. Sapevo poco della vita e dei suoi mercimoni.
Ecco,
c’era una donna, che nel mare turchese di luglio aveva nuotato per un bel
tratto di buona lena e adesso era per raggiungere la boa che divide lo spazio
sicuro del vociare dei ragazzi, della spuma che si rinfrange placida sulla
battigia dal mare aperto.
Ora
si accingeva a doppiarla per entrare nel grande blu cupo da dove si sentono ovattati
il richiamo vigile delle mamme e gli spuzzi frizzanti dei bimbi sull’acqua
bassa. Adesso, lei infaticabile nuotatrice, avvertiva anche una fatica, un
peso, a nuotare con bracciate regolari verso la sua meta, della quale anzi da qualche
po' principiava pure a dubitare. E poi ora si chiedeva, e sempre con più
frequenza, perché tutto questo entusiasmo nell’affondare le bracciate, perché assecondare
con ritmo regolare la respirazione, per cosa poi? Andava avanti solo perché si
doveva, perché fermarsi non si poteva. Sarebbe successo da sé, diceva: una
volta o l’altra avrebbe mollato, le forze sarebbero venute meno. Ma non adesso
ancora.
La
donna possedeva un viso ampio, di un’armoniosa geometria variata talvolta dall’incresparsi
di due deliziose fossette. Era dominato da zigomi alti ed eleganti, che distendendosi
in una mollezza dolcemente muliebre si spaziavano così da permettere con
la giusta misura al naso di accamparsi dritto e sottile, al taglio degli occhi di
distanziarsi opportunamente e assottigliarsi in due sagome dal taglio felino fino
ad una linea impercettibile, alla bocca di flettersi nelle labbra lunghe e nobili.
Il dominio austero degli zigomi sul suo volto via via cedeva; la loro
prominenza digradava delicatamente, scendendo senza fretta, poco a poco verso
il mento, insostituibile compimento con la sua esatta angolatura del declinare
di quel viso. La incorniciavano capelli sottili e ondulati che negli anni
maturi variavano in molteplici toni autunnali. Tutto era impreziosito dal
gemmare di due occhi del colore del mare tenero di maggio.
Era
ben fatta nelle proporzioni, i fianchi generosi ma con misura, le spalle
proporzionate, gli arti svelti e ben torniti.
La
signora era da sempre stata scrupolosa nella cura della sua persona; aveva un
modo di abbigliarsi raffinato ed essenziale e dosava con equilibrio il maquillage così da assumere l'immagine di una velata sensualità. Col bel tempo amava portare vestiti
leggeri, aperti sulle spalle o sul collo. D’inverno invece indossava eleganti
tallieur o gonne sopra il ginocchio e giacchini, di pelle a volte, ben
attagliati, stretti in vita. Ma erano tante le volte che metteva jeans ben
attillati, conformati esattamente alla sua figura che davano il giusto risalto
a gambe e natiche tra le più armoniose e sode che si vedessero correntemente in
donne di quell’età.
Tutti gli uomini insomma, o quasi, la consideravano una bella donna, sensuale, distinta, di presenza
impeccabile. L’insieme di qualità che possedeva o millantava rientravano
infatti nel terreno più classico del richiamo erotico, almeno per i coetanei di
mezz’età.
Certo
non era perfetta. Le avrebbe giovato qualche centimetro in più e dei seni
poi non si sarebbe potuta di certo gloriare, piccoli e poco rilevati com’erano.
Ad
ogni modo, per quanto assurdo possa sembrare, come fosse il suo corpo poco
importava. Era il personaggio che contava. Aveva studiato per
anni per diventare la figura che adesso impersonava con adesione totale. Pareva
nata quasi per per essere una piacente cinquantenne e che tutto il
resto, gli anni che l’avevano portata fin là non fossero solo che tappe utili a
quello scopo, marmo che sopravanza da una scultura riuscita. Aveva con sapienza
sublimato e quasi raffinato, fino alla rarefazione, alla rasatura delle punte
più irregolari, la maniera di parlare, di sorridere con sapiente
malizia, con l’impercettibile flettersi del labbro, di calibrare esattamente un
sorriso o un gesto di entusiasmo. Era fascinosa senza ammiccare; era sensuale fingendo
di non saperlo; attraente, ma mai volgare. Aveva imparato ad essere disinvolta
nel negarsi agli occhi e nel dissimulare la provocazione che recava davanti a
chi la faceva sua con la vista. Gli anni che tracimavano il limite della boa
avevano tolto qualcosa alla freschezza del suo corpo, ma certamente avevano affinato
alcune qualità della donna, perché adesso era tremendamente e languidamente
consapevole della sua splendida decadenza, della sua matura carnalità.
Aveva capito perfettamente che si seduce con la padronanza assoluta e intima di sé stessi. Era perfettamente consapevole la signora di sé e degli altri, degli sguardi lubrichi che suscitava, delle lusinghe, dei corteggi untuosi; sapeva sicuramente di essere oggetto di ganci allusivi, di ammiccamenti, degli apprezzamenti volatili, che avrebbe rappresentato sempre di più il concretarsi viscido di pensieri sconci, di sommaria concupiscenza.
Aveva capito perfettamente che si seduce con la padronanza assoluta e intima di sé stessi. Era perfettamente consapevole la signora di sé e degli altri, degli sguardi lubrichi che suscitava, delle lusinghe, dei corteggi untuosi; sapeva sicuramente di essere oggetto di ganci allusivi, di ammiccamenti, degli apprezzamenti volatili, che avrebbe rappresentato sempre di più il concretarsi viscido di pensieri sconci, di sommaria concupiscenza.
Sapeva inoltre che maschi o donne di ogni sorta, nelle conventicole dei
pettegolezzi, l’avrebbero rigirata, rivoltata e tastata – lei sposatissima con
un vincolo solido - come fosse un dentice sul bancone del pescivendolo, ancora
e ancora per pesarla o soppesarla nella sua moralità, sollevando ogni genere di
lontano dubbio sulla sua condotta nascosta, anche solo tanto per malignare.
Certo
la signora non voleva apparire donna per tutti; il suo fascino distinto sarebbe
probabilmente si sarebbe dissolto davanti ad una bramosia volgare o troppo
diretta. Per conversare con lei
occorreva un po' di stile, parlare un tantino il suo linguaggio. Credevo, da
principio, che tutto comunque si esaurisse li', nel sapere di non essere ancora da buttare
via.
Poi
una mattina, mentre arrivava al lavoro e nell’androne dell’edificio tre, quattro
colleghi facevano gruppo. Qualcuno disse: “Ecco la bella
profumiera!”. “La Bella profumiera”: avrebbe potuto essere una stupenda figura
dell’iconografia femminile! Quasi come “La bella ferroniere” leonardesca o “La
bella” di Tiziano. E poi ancora “La fornarina” dell’Urbinate, “L’Antea” del
Mazzola o qualche ritratto muliebre di Bronzino, Picasso, Van Gogh, Renoir,
Gauguin, le donne di Klimt. Rimasi folgorato dall’immagine.
Mi
tornò in mente di aver sentito usare questa definizione in passato con altri intenti, per lo più da femminari scornati, dagli amici al bar, da qualche femmina
invidiosa o saggia intenditrice di altre femmine. Ma soltanto adesso, andando a
ritroso con le mie esperienze semantiche e antropiche, avevo recuperato
pienamente il vero significato di “Profumiera”. Questo doveva essere: una gran
femmina che irretisce con un fascino fatto di moine, vaghe allusioni, col
profumo del suo richiamo seduttivo, ma che poi all’ultimo si tira indietro.
Butta tutto a un tratto in faccia al seduttore sedotto che si è trattato di
un’inconsistente illusione, di un puro fraintendimento.
Per
di più la donna emanava in effetti davvero un sublime profumo, un aroma di
potente richiamo sensuale, malioso come il canto di una sirena, soffice come il
richiamo del grembo materno, deciso ma mai troppo invadente. Non si trattava in
fondo di qualcosa che la signora si metteva addosso: era lei il suo profumo, era l’essenza
della sua persona, la sua carne di femmina, il suo sesso. E in fondo lei non era altro:
un profumo volatile, volubile e imprendibile sotto apparenza di donna. Forse era diventata la Profumiera da quando, un giorno, si
era accorta che non sarebbe più stata desiderata senza aver voluto che accadesse: sapeva di aver doppiato la boa. Ad ogni modo ora era quello il suo modo di stare al
mondo. C’era la bella
profumiera o niente al posto suo. Nessun’altra sfaccettatura della sua persona
che valesse la pena di salvare dal naufragio dell’ordinarietà, dallo sgretolarsi
progressivo degli anni. Ecco, pensai, una sacerdotessa della profferta
sensuale, una propalatrice di fragranze che ti perdono, una superba
dispensatrice della femminilità più impalpabile, quella che sta tutta
nell’alito di un profumo. Una figura del mito antico che come Calipso investiva
con la potenza fluttuante del suo effluvio anche chi non la cercava, chi
evitava le sue lusinghe
Volli
sapere di più su di lei. La osservai con più scrupolo. Chiesi, feci il complice
con gli amici, fingendo interesse per lei. Pareva certo: più di uno ci aveva
provato sul serio in passato, quantunque le identità degli avventurieri
sfumassero nell’indefinito. In effetti il gioco era quello che supponevo. Quando
leggeva negli occhi nella pelle di un uomo un’attrazione, che non si manifestasse
con una malizia troppo sfrontata, si lasciava corteggiare, lusingare blandamente.
Poi senza che il maschio se ne accorgesse, anzi lasciandogli credere che fosse
lui a circuirla, lo conduceva scientificamente di passo in passo, di
provocazione in provocazione via via fino al limite estremo dell’allettamento
sessuale, alla soglia dove uno sfruculiare vago prendeva una forma concreta; lo
illudeva realmente che la cosa si potesse fare davvero, anzi si fosse proprio sul
punto di peccare. E se le frasi, le prefigurazioni di un approccio, quelle che
si reggevano quasi sempre solo sulle loro stesse gambe e non su altro, non
bastavano - perché la signora non prometteva nulla
né si comprometteva mai esplicitamente – provocava con sorrisi dolci, col conversare suadente,
con una sensualità lasciata scivolare distrattamente, l'orlo sollevato appena
sulla coscia, la scollatura fatta scendere sbilenca dove l’occhio s’insinua o gli sfregamenti distratti, casuali nei corridoi, tra sedie,
scrivanie. Usava con sapienza tutte le innate arti della animalità femminina, del corpo
amorale e presciente, come tutti i corpi. Quante volte avrà visto gli occhi degli uomini
infoiarsi, montare di desiderio fino al limite estremo.
Poi
ogni volta, all’ultimo, prima che il vascello dell’avventura lasciasse
la riva e si perdesse tra le nebbie, - un invito ad un cinema, a casa del
collega ad esaminare bene una pratica, un giro in moto o un caffè tete a tete
da qualche parte – la signora richiamava a sé la cima del legame matrimoniale. Sempre
attimo prima che ogni vaga lusinga si sostanziasse in qualcosa di irrevocabile.
Troncava con innocente garbo, manifestando un doloroso fraintendimento. E se
serviva ecco il gesto brusco, la distanza inusuale, lo sguardo obliquo, l’estinguersi
improvviso di una frase, la voce fatta incolore. Era un divertissment certo, mi
dicevo e lei forse non era altro che una sadica vestita da gran dama, come tante
altre perfide profumiere.
Chi
sa, pensavo, avrà mai esitato un attimo di troppo nel saltare a riva dal
naviglio salpato? Ci sarà mai stato qualcuno che l’abbia tentata quasi da farla
cadere? O ci sia riuscito una volta? E poi avrà mai pagato pegno per tutta
questa frivola perfidia?
E un giorno accadde una cosa. Un tipo, uno dei colleghi al lavoro, uno che
l’aveva lusingata con le galanterie, i corteggi, gli omaggi eleganti, dosandoli
talvolta con una certa quota di allusioni equivoche,
seminando qualche vago gancio di disponibilità qua e là, da potere ritirare
opportunamente quando fosse arrivato uno sdegnato rifiuto, insomma uno di
questa razza l’aveva trovata la sera prima ad una serata elegante tra colleghi
senza il consorte. C’ero anche io quella volta. Sfoggiava, come lei sapeva, la
sua tenuta da femmina di gran bordo, quella buona per le foie degli uomini di
mezza età. I capelli leggermente ondulati, metà fulvi e metà cinerini,
scivolavano a onde scalari luminosi come molli fiotti di luna e di sole sulla
sua testa. Aveva un sorriso radioso, la sua pelle era calda e profumata. Indossava
con naturale vanità un abitino corto color cobalto, che le lasciava scoperte le
spalle aprendosi poi con un profondo acuto scollo. Era certa di essere
attraente, di tenere gli uomini sotto il suo incantesimo.
Il
giorno dopo al lavoro durante una pausa il tipo la incontra al bar mentre lei sedeva
a bere un caffè.
La
donna, ancora trionfante della sua gloria di maliarda, cerca adesso il ritorno
della fascinazione profusa la sera prima, vuole forse un ulteriore richiamo della sollecitazione
erotica. Allora chiede all’uomo: “Mi hai visto ieri? Il mio abito, la mise? Vi
ho fatti tutti secchi, no?”. La risposta è una sciabolata perentoria e
secca: “Perché, cosa c’era da vedere che non si sapeva già? Robetta ormai
scaduta, lo sai!” Poi aggiunge spietato: “Un profumo, solo da odorare, quando l’hai
sempre sotto il naso prima o poi ti stomaca.”
Fu quello l’istante esatto del precipizio improvviso che si schiude, del cataclisma
fragoroso. L’insospettabile sciagura di un personaggio e del suo andamento. La donna
rimase senza parole, le mancarono le forze per dire alcunchè. Con lo sguardo smarrito di una bambina guardava verso l'alto l’uomo che la inchiodava con la sua inflessibile durezza. Era stordita; non comprendeva. Poi due lunghe
righe scure di rimmel rigarono il suo viso; lo scintillio delle immobili gemme
di smeraldo fu intorbidito da due cospicui rivoli d’umore acqueo; il viso illividì.
La
Profumiera uscì di scena in quel momento, si dileguò furtiva come un piccolo
impostore.
Non
c’era più quando l’uomo andò via.
Nessuno
vide più la signora per un po’: s’era messa in malattia per un lungo periodo.
Si sentiva dire in giro che stava male, che non tornava presto.
Quando
ritornò, quasi tre mesi dopo, qualcuno da principio fece fatica a riconoscerla.
Era dolente, smagrita, abulica; pareva che la pelle le si fosse come ritirata
tutt’assieme dalla carne, raggrinzendo attorno agli occhi, alla bocca, al collo
e sul dorso delle mani in tante piccole fitte rughe. Il viso, truccato molto
poco, aveva mutato la sua lucentezza in uno spento tono incolore. I capelli li
aveva tagliati corti e vestiva adesso con l’ordinarietà di tante altre
distratte e opache madri di famiglia, donne spente ed elusive dalla propria
femminilità, serve del monotono vivere ordinario. Camminava con un passo
faticoso e le spalle un po' curve. Della
Bella Profumiera restava l’accensione del rossetto vermiglio sulle labbra e un
po' di ombretto chiaro attorno agli incorruttibili occhi di smeraldo, il cui
sfavillio però annaspava in mezzo agli incavi profondi delle occhiaie e
all’espressione stordita che si portava ormai sempre dietro.
La
vide quel collega che quella volta l’aveva messa al suo posto. Le disse quando la incontrò: “Do il ben tornata alla nostra gran regina!”.
Lo udì che l'aveva oltrepassato un po' camminando. Si fermò qualche passo dopo; si girò verso di lui
piantandogli addosso il suo sguardo stanco. Lo guardò, interminatamente, col
dolore, con la lontananza, con l’incerta sospensione, con incertezza, chiedendosi e
chiedendogli il perché di tanto male e soprattutto lo guardò con il peso della sua
vecchiaia che adesso era lì, tutta intera, a spezzarle le spalle.
L’uomo non durò quegli occhi e andò via.
E
pianse.
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