di
Valentina Sechi
Ragionare
sul rapporto che lega Cina e USA significa immergersi in una storia costellata
di crisi e distensioni i cui protagonisti appaiono irrimediabilmente agli
antipodi: baluardo della libertà sensu lato, della democrazia e del capitalismo
il primo, conservatore, autoritario e comunista l’altro.
Per
cercare di spiegare lo stato dell’arte della loro relazione sono necessarie
considerazioni di tipo economico, geografico e soprattutto politico alla luce
del cambio di rotta rappresentato dal Presidente americano Trump rispetto ai
suoi predecessori.
Geograficamente,
la Cina è circondata da alleati statunitensi e piccoli arcipelaghi che la
Marina statunitense potrebbe usare per chiudere Pechino in caso di conflitto
militare. Di rilievo è anche la Corea del Nord che preoccupa Washington e
potrebbe cooperare con la Cina che ne ricaverebbe concessioni di qualche
tipo. La cosa migliore che la Cina potrebbe
fare è destabilizzare gli alleati Usa incrementando se possibile, la propria
influenza. Essa sta inoltre modificando i rapporti con Paesi come le Filippine
e il Myanmar ma il successo è limitato dalla mancanza di potere militare nella
regione poiché l’America ha, a differenza della sua rivale, amici come India, e
Giappone. Delicata è anche la questione
del Mar Cinese meridionale in cui nel 1947 il governo cinese ha tracciato una
linea di demarcazione fittizia, la cosiddetta nine dash line (situata in
un’area caratterizzata dal ruolo cruciale per il controllo delle rotte
commerciali, la presenza di idrocarburi e di una florida fauna acquatica), che
è stata dichiarata illegittima dalla Corte di arbitrato dell’Aja poiché non
sussiste base giuridico legale a tali rivendicazioni e pertanto gli Usa
formalmente non riconosco le pretese dei Paesi rivieraschi nelle zone
economiche esclusive adiacenti le isole in questione, mantenendo un profilo di
neutralità.
A prima vista, le relazioni commerciali tra i
due Paesi sono tra le più forti al mondo ma mentre i commerci aumentano e le
economie diventano più complesse, ci sono dei nodi da sciogliere come le
limitazioni imposte da Pechino alla competizione nei confronti delle aziende
americane. Questa asimmetria si accompagna al sorgere del nazionalismo in Cina
e del populismo economico negli Stati Uniti.
L’aumento del deficit è legato all’aumento
della capacità d’acquisto del Paese e quindi alla crescita economica mentre
aumenta lo squilibrio commerciale che Trump vuole ridurre con una politica
commerciale aggressiva basata su dazi che avrebbero dovuto portare Pechino ad
accogliere richieste per l’apertura completa del mercato interno ma a cui la
Cina ha reagito con dazi sulle importazioni statunitensi e riduzione di quelli
di Paesi concorrenti degli USA. Uno degli elementi positivi è il commercio al
dettaglio infatti le esportazioni di beni di consumo sono in aumento e in Cina
cresce tale segmento con riguardo al commercio internazionale poiché non sono
richieste procedure di etichettatura e regolamenti costosi in virtù della
liberalizzazione del settore.
Nel
2011 l’allora Segretario di Stato Clinton aveva annunciato il Pivot to Asia, un
piano di rafforzamento, entro il 2020, della presenza economica, militare e
diplomatica mediante la creazione di accordi di libero scambio con i partner
storici nell’area e la normalizzazione con nuovi alleati. Il riorientamento
verso l’asse asiatico necessario per destabilizzare il Medio Oriente dopo la
ritirata da Afghanistan e Iraq si è realizzato solo in parte a causa delle
primavere arabe e della crisi ucraina. Il piano dell’amministrazione Obama
prevedeva anche la creazione della Partnership trans-pacifica, un patto
commerciale che avrebbe dovuto rappresentare un contrappeso all’egemonia cinese
che ha contrattaccato con la Regional Comprehensive Economic Partnership, un
progetto di trattato di libero scambio. Trump ha ritirato il Paese dagli accordi
preferendo intavolare negoziati bilaterali con i Paesi membri e dopo aver
isolato la rivale fare espressioni per spingerlo a liberalizzare l’economia.
Già
a gennaio 2018 il Tycoon pone dazi su pannelli solari e lavatrici importati
dalla Cina per un valore di oltre 3,5 miliardi di dollari, due mesi dopo è la
volta di acciaio e alluminio, a ciò la Cina replica con tariffe su tre miliardi
di dollari su beni importati dagli Usa così, in Aprile, delegazioni dei due
Paesi si sono incontrate per scongiurare una guerra commerciale sebbene
l’incontro si sia concluso con un nulla di fatto. A giugno nuovi dazi vengono approvati dal
Presidente per 50 miliardi di dollari a cui la Cina risponde con dazi per un
pari importo sui beni americani. Appena due mesi dopo, viene avviata
un’indagine su possibili violazioni di proprietà intellettuale e tecnologia da
parte di Pechino con particolare riguardo ai prodotti tecnologici su cui Trump
annuncia dazi del 25% per 16 miliardi per porre pressioni sul programma Made in
China 2025, iniziativa governativa per trasformare il paese nel più avanzato al
mondo in campo tecnologico. Di nuovo l’avversario impone a sua volta dazi,
specie sulla soia, per danneggiare gli Stati agricoli che hanno votato per
Trump.
Il
4 ottobre, il vice Presidente Usa Mike Pence espone di fatto una dichiarazione
di guerra fredda condannando la repressione interna e la sorveglianza di Stato
in Cina, la pressione sulle università americane minacciando di negare visti ai
ricercatori, le intimidazioni a Taiwan. Nello stesso mese, il funzionario
dell’intelligence Xu Yanjun viene estradato in America per il furto di segreti
commerciali ed è la prima volta che un cittadino cinese viene estradato con tale
accusa.
In
occasione del G20 tenutosi a Buenos Aires in dicembre, Trump e il Presidente
cinese Xi Jinping sono giunti al congelamento dei dazi per tre mesi in modo da
mantenerli al 10% rispetto al 25 inizialmente previsto a partire da gennaio
2019 e in cambio la Cina acquisterà una grande quantità di prodotti agricoli,
energetici e industriali per ridurre lo squilibrio commerciale tra i due. In
caso di mancato accordo le tariffe subiranno gli amenti previsti. Tale tregua
mostra la volontà di un dialogo costruttivo per risolvere i problemi in ambito
commerciale, dato che le relazioni dei due Presidenti sul piano personale sono
ottime.
Negli
stessi giorni veniva reso noto l’arresto in Canada della direttrice finanziaria
di Huawei Meng Wanzhou, accusata di intrattenere rapporti con l’Iran, sotto
embargo da parte di Washington, e in attesa di decisione di estradizione negli
Stati Uniti, la vera ragione sarebbe il presunto uso da parte del colosso
cinese di infrastrutture strategiche delle telecomunicazioni per spiare
aziende, utenti e apparati governativi.
La
strategia di Trump, al grido di America first vuole indicare a volontà di
mantenere la leadership globale economica, politica e tecnologica a livello
globale combattendo l’ideologia del globalismo e abbracciando la dottrina del
patriottismo. Primato insediato dalla Cina con il China manufacturing 2025 e la
belt road iniziative, una rete di infrastrutture per connettere il Paese con
Asia, Europa e Africa.
Le
misure protezionistiche vorrebbero far aumentare la produzione e i posti di
lavoro riducendo le importazioni mentre i dazi servono a modificare il
comportamento del Paese, spingendolo ad abbandonare pratiche commerciali
scorrette e arrivare a porre le aziende americane operanti nel Paese su un
piano di equa competizione.
A
oggi la strategia aggressiva di Trump sembra funzionare. I dati sulla crescita
e la produzione sono buoni ma è difficile fare previsioni a lungo termine e la
strategia americana potrebbe trovarsi in difficoltà poichè Pechino sta
consolidando una propria supply chain su proprie tecnologie e relazioni
privilegiate con molti Paesi.
Nessuno può tornare indietro dalla
globalizzazione. L’unica possibilità è sviluppare un nuovo modo di vedere gli
scambi globali la cui alternativa è una guerra fredda commerciale con due
grandi poli Cina e USA replicando lo schema del conflitto con la Russia che si
sposta dal piano ideologico a quello economico creando danni all’economia
mondiale, ai mercati finanziari e maggiori rischi di conflitti militari. Se, da
un lato, gli USA sono il Paese più tecnologicamente avanzato, è pur vero che la sua tenuta socio-economica
dipende dal voto degli agricoltori e dalle loro esportazioni di prodotti
agricoli trascurando il settore manifatturiero che è invece la punta di
diamante di Paesi emergenti come la Cina che ha superato il ruolo di produttore
a basso costo di prodotti tecnologici e deve mantenere una crescita elevata per
mantenere la coesione interna ma vede
l’avanzo commerciale assottigliarsi sempre di più e deve pertanto continuare ad
aprire e riformare la sua economia. Si auspica a breve la creazione di accordi
commerciali di ampio respiro che permettano il miglioramento delle relazioni
dei Paesi e scongiurino gravi rischi per il Pianeta. Finisce così la prima
parte di questa storia lunga e travagliata, di due Paesi diversi ma accomunati
dalla volontà di essere la prima potenza al mondo. Per conoscere il seguito
bisognerà attendere gli eventi che si dipaneranno sul filo della storia. Chi
vivrà, vedrà.
11/12/18
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