Recensione
di Francesca Saieva
Nel
1953, María Zambrano, a distanza di pochi mesi, pubblica Charlot o el histrionismo ed El
payaso y la filosofia, due brevi ma accurate riflessioni sull’arte
clownesca, tradotte e curate da Elena Laurenzi nel recente volume Il pagliaccio e la filosofia (ed.
Castelvecchi, 2015).
Una
sorta di meditazione sull’istrionismo dai
risvolti filosofici, in risposta alle accuse maccartiste di comunismo nei
confronti di Chaplin e del suo film Luci
della ribalta (1952). Un’analisi sul travestimento
dell’artista-intellettuale, negli insoliti panni del pagliaccio.
M.
Zambrano, nel trattare la questione con spiritualità e ragione poetica
(peculiarità d’altronde che la contraddistinguono nel panorama filosofico),
‘riabilita’ la figura di Chaplin-Charlot agli occhi di un pubblico sfavorevole,
politicamente ed emotivamente, ad accogliere le confessioni di un istrione, ma,
ancor di più, un pubblico insofferente alla vocazione,
quale smascheramento identitario.
Perché,
se esigenziale è “il diritto di tutti gli esseri umani a una confessione della
propria vita e di quanto – in essa – vi è di più essenziale”, cioè a dire la
vocazione, insopprimibile è, da parte di chi ascolta, la paura delle ‘maschere
nude’. Questo è l’uomo, la sua maschera
e questi i suoi fallimenti, sembra dire la nostra.
E se Chaplin
avesse visto in Calvero (protagonista in Luci
della ribalta) il suo alter-ego? Parte di una proiezione intima,
necessitata, all’apice del successo del grande attore, dall’angosciante
scoperta di non aver mai vissuto se non dietro la silhoutte di Charlot?
In
fondo, Charlot o Calvero poco importa, ciò che rimane è l’uomo-istrione, con
scarpe rotte piroettanti e da distinta gardenia
all’occhiello; incedendo per la sua strada, si espone allo scherno del
pagliaccio sociale. Immobile alle sberle
che riceve, porge l’altra guancia e il volto alla beffa. In un gioco
disumano e spietato, si concede, con sguardo incredulo e assonnato, al “Dio del
riso e della sofferenza, della mimica e della danza espressiva e liberatrice”. Così
ambivalente, il clown danza a ritmi disperati, camuffati da indumenti
artistici, nell’attesa di riappacificarsi con se stesso e il pubblico.
Una dimensione
clownesca, quindi, fortemente commisurata all’azione redentrice dell’arte, alla
rivalutazione del riso, quale supporto, se non piena espressione del pensare,
al discorso filosofico e ai suoi, seppur parziali, risvolti nietzscheani,
maggiormente evidenti nello scritto El
payaso y la filosofia. Infatti, se la profondità,
secondo Nietzsche, ha bisogno di una
maschera, che restituisca la piena coscienza di sé, come morto che si finge vivo, così il
pagliaccio “essendo morto conosce ogni cosa; ma – continua la Zambrano – poiché
nulla ha più importanza per lui, ha la carità, quella che il filosofo, essendo
vivo, non possiede”. Carità nella grazia dei suoi gesti, dono di una verità
rappresentativa e istintuale, mai annunciata o predetta.
Dissonanze
filosofiche armonizzano il Cristo dell’umiltà, il Dioniso del riso e
dell’ebbrezza, il pagliaccio del fallimento e della miseria umana, piombando
nel dualismo vertiginoso dell’altezza e dell’abisso. Il pagliaccio, a
differenza del circense funambolo, non conosce l’altezza se non nell’abisso,
nella zolla da cui proviene (clod sta
per zolla di terra), nell’atto del
pensare, nel vacillare costante del suo
cammino; quell’appagante quotidiano inciampare, tra distrazione e
consolazione, per chi ha compreso ciò che esiste ‘oltre il giardino’ pur avendo
posto il recinto alla propria libertà.
Nessun commento:
Posta un commento
Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie