giovedì 28 luglio 2016

Il pagliaccio e la filosofia (María Zambrano)



Recensione di Francesca Saieva

Nel 1953, María Zambrano, a distanza di pochi mesi, pubblica Charlot o el histrionismo ed El payaso y la filosofia, due brevi ma accurate riflessioni sull’arte clownesca, tradotte e curate da Elena Laurenzi nel recente volume Il pagliaccio e la filosofia (ed. Castelvecchi, 2015).
Una sorta di meditazione sull’istrionismo dai risvolti filosofici, in risposta alle accuse maccartiste di comunismo nei confronti di Chaplin e del suo film Luci della ribalta (1952). Un’analisi sul travestimento dell’artista-intellettuale, negli insoliti panni del pagliaccio.
M. Zambrano, nel trattare la questione con spiritualità e ragione poetica (peculiarità d’altronde che la contraddistinguono nel panorama filosofico), ‘riabilita’ la figura di Chaplin-Charlot agli occhi di un pubblico sfavorevole, politicamente ed emotivamente, ad accogliere le confessioni di un istrione, ma, ancor di più, un pubblico insofferente alla vocazione, quale smascheramento identitario.
Perché, se esigenziale è “il diritto di tutti gli esseri umani a una confessione della propria vita e di quanto – in essa – vi è di più essenziale”, cioè a dire la vocazione, insopprimibile è, da parte di chi ascolta, la paura delle ‘maschere nude’. Questo è l’uomo, la sua maschera e questi i suoi fallimenti, sembra dire la nostra.
E se Chaplin avesse visto in Calvero (protagonista in Luci della ribalta) il suo alter-ego? Parte di una proiezione intima, necessitata, all’apice del successo del grande attore, dall’angosciante scoperta di non aver mai vissuto se non dietro la silhoutte di Charlot?
In fondo, Charlot o Calvero poco importa, ciò che rimane è l’uomo-istrione, con scarpe rotte piroettanti e da distinta gardenia all’occhiello; incedendo per la sua strada, si espone allo scherno del pagliaccio sociale. Immobile alle sberle che riceve, porge l’altra guancia e il volto alla beffa. In un gioco disumano e spietato, si concede, con sguardo incredulo e assonnato, al “Dio del riso e della sofferenza, della mimica e della danza espressiva e liberatrice”. Così ambivalente, il clown danza a ritmi disperati, camuffati da indumenti artistici, nell’attesa di riappacificarsi con se stesso e il pubblico.
Una dimensione clownesca, quindi, fortemente commisurata all’azione redentrice dell’arte, alla rivalutazione del riso, quale supporto, se non piena espressione del pensare, al discorso filosofico e ai suoi, seppur parziali, risvolti nietzscheani, maggiormente evidenti nello scritto El payaso y la filosofia. Infatti, se la profondità, secondo Nietzsche, ha bisogno di una maschera, che restituisca la piena coscienza di sé, come morto che si finge vivo, così il pagliaccio “essendo morto conosce ogni cosa; ma – continua la Zambrano – poiché nulla ha più importanza per lui, ha la carità, quella che il filosofo, essendo vivo, non possiede”. Carità nella grazia dei suoi gesti, dono di una verità rappresentativa e istintuale, mai annunciata o predetta.
Dissonanze filosofiche armonizzano il Cristo dell’umiltà, il Dioniso del riso e dell’ebbrezza, il pagliaccio del fallimento e della miseria umana, piombando nel dualismo vertiginoso dell’altezza e dell’abisso. Il pagliaccio, a differenza del circense funambolo, non conosce l’altezza se non nell’abisso, nella zolla da cui proviene (clod sta per zolla di terra), nell’atto del pensare, nel vacillare costante del suo cammino; quell’appagante quotidiano inciampare, tra distrazione e consolazione, per chi ha compreso ciò che esiste ‘oltre il giardino’ pur avendo posto il recinto alla propria libertà.


Nessun commento:

Posta un commento

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie