martedì 21 agosto 2012

Il cinema francese e l'estetica del distacco

di Enzo Barone

L’altra sera Rai5 trasmetteva un bel film francese con Isabelle Huppert: “La commedia del potere”. Si trattava di un film di Chabrol, della nouvelle vague.
La vicenda riguardava una ostinata pubblico ministero che porta avanti una rognosissima inchiesta di corruzione nel mondo politico del suo paese, cercando di conciliare tanta inaffondabile determinazione con un decente menage coniugale.
La Huppert doveva sostenere lo stress psichico di un’inchiesta estremamente delicata, con pressioni politico-lobbistiche nei suoi confronti sempre crescenti e al contempo gestire i delicati equilibri di un matrimonio inesorabilmente stritolato da un impegno professionale totalizzante, soprattutto, come si diceva, per la sovrumana ostinazione della donna-giudice. E la relazione sofferta tra i coniugi per poco non porterà ad un esito tragico.


La trama potrebbe non avere molta importanza.
Quello che ha importanza è invece prendere atto dell’habitat psicologico in cui  i vari personaggi nuotavano, connotato da relazioni interpersonali fredde e distaccate, naturalmente nella prospettiva di un osservatore italiano.
Eccettuata la scena madre (ma esistono nella nouvelle vague le scene madri?) quella dello scontro tra i coniugi, ogni avvenimento, reazione emotiva, interrogatorio stringente, ogni scelta decisiva della protagonista e dei comprimari avveniva con solenne contenutezza, con assoluta pacatezza, con quello stile tutto francese di relazionarsi ed agire che a volte definiamo savoir faire o magari nonchalance.
Chi conosce il cinema francese (quello degli ultimi quarant’anni almeno) sa che questo clima appartiene a moltissimi film non brillanti di quella nazione, a prescindere dalla pregnanza o drammaticità dei contenuti.
Ci si lascia dalla moglie, si perde il lavoro, si decide di fare la bella di giorno o di suicidarsi, ma sempre in un clima rarefatto, ovattato, di calma generale, benché per assurdo tutto ciò non faccia decadere quasi mai il carattere tragico della storia, grazie alla classe di attori e registi.
Adesso è bene però che si svelino le intenzioni di chi scrive: questo non vuole essere un pezzo sul cinema francese, o meglio non solo, quanto piuttosto una riflessione sull’importanza dell’emotività nella produzione e nella fruizione dell’opera d’arte, nel cinema, come nella letteratura.
Analizziamo con calma quali sono i vantaggi che questo genere di filosofia estetica comporta dal punto di vista del fruitore comune.
Certamente il primo è di carattere precipuamente percettivo.
La serie di vicende esistenziali, gli accadimenti, la logica che governa l’intreccio e lo sviluppo danno vita ad una narrazione artistica sono certamente fruibili con maggiore chiarezza, se depurati quanto più possibile dalle scorie della enfatizzazione, dalla patina del pathos, del sentimentalismo.
Farò ancora riferimento al film di cui parlavo.
Voglio premettere, per non passare per sprovveduto, che il personaggio della Huppert è volutamente stato costruito proprio per avere contorni algidi, volontà ferrea, ma il fatto è (come si diceva) che la stessa algidità permea tutti i personaggi e molti altri film di Chabrol e della nuovelle vague. E in ogni caso ripetiamo la questione va oltre.
Io, dicevo,  riesco meglio a seguire una certa trama, a vedere lo sviluppo dell’intreccio, decodificandone il suo senso profondo, se ad esempio il giudice Isabelle Huppert, quando interroga i suoi inquisiti, tutti palesi farabutti e si sente negare con arroganza l’evidenza, non reagisce come faremmo in tanti alzando la voce, contestando con vigore, a voce alta le menzogne ascoltate. Ma risponde con raziocinio e avvedutezza
E ancora quando la protagonista discute col marito della loro difficile relazione o del suo lavoro, entrambi i coniugi si rapportano tra loro, edificando il loro dialogo soltanto sulla nuda struttura informativa o referenziale-oggettiva.
Questo naturalmente non esclude l’ironia elegante, un uso della lingua raffinato, alto, un parlare figurato: d'altronde si tratta di un’opera d’arte non del referto di un brigadiere dei carabinieri!
Ma si tengono rigorosamente fuori dalla porta le eccessive divagazioni, i mutamenti di tono nella recitazione, i voli poetici non indispensabili allo sviluppo efficace del racconto e soprattutto si riducono all’osso le reazioni individuali impulsive, le connotazioni affettive del discorso.
Nella stessa scena madre (quella del litigio dei coniugi e del conseguente abbandono del tetto coniugale da parte della donna), dopo un essenziale concitato sfogo del marito, ormai sacrificato sull’altare dell’efficientismo professionale della moglie, segue un alterco, in parte anche fisico tra i due e il secco abbandono dell’appartamento. Il tutto senza grandi mutamenti della maschera facciale della donna, senza il prevedibile sforzo di trattenerla da parte di lui, senza urla o scenatacce.
La giudice con un soprabito sopra la veste da camera esce dall’appartamento, sale sulla macchina di scorta e risponde alle guardie del corpo che le chiedono dove la devono condurre che si va in ufficio, dove altro, alle quattro del mattino!
Tutto senza la minima ad alcuna spontanea, attesissima concessione all’umorismo.
A parte quest’ultimo aneddoto del film, comunque con questa impostazione stilistica il nucleo tematico-narrativo è realmente emerso in tutto il suo scintillante nitore, isolato come un diamante, assolutamente bastante a sé stesso, proprio come un opera del Canova alla fine dell’opera di ultima politura.
Non casualmente simile.
Si tratta infatti dell’antica, antichissima questione su cui in fondo si basa anche l’estetica del neoclassicismo. 
L’inquinamento delle passioni deturpa il godimento della bellezza ideale o dell’idea della bellezza, se vogliamo.
Se il mio obiettivo artistico è naturalmente quello di giungere ad un idea, ad un nucleo purissimo di bellezza.
Il pathos come effetto collaterale da correggere nel miracolo del prodotto d’arte.
Non il pathos tutto però; soltanto il pathos espresso in modo evidente, superficialmente fenomenico.
Canova come Chabrol o Hemingway detestano la facile effusione sentimentale, il sentimentalismo buttato là a secchiate, demone che si cela sotto le mentite spoglie della comunicazione e si muta immediatamente in messaggio esso stesso, evaporando quindi subito, facendo perdere all’opera efficacia e significato. Il barocchismo cioè.
Chiaramente Canova e Chabrol nell’estetica sono compagni di viaggio solo per questo tratto di cammino.
Nei registi della nouvelle vague (e in scrittori come Hemingway) naturalmente gli obiettivi sono altri; l’orientamento estetico ultimo ha altre finalità.
Mettere al centro il racconto, non i personaggi (o peggio gli attori); catapultare con decisione lo spettatore al centro della storia, lasciandolo libero di muoversi da solo al suo interno con maturità, senza la guida paternalistica dell’autore, consentendogli di leggere il film con chiarezza nella sua essenza di sviluppo di avvenimenti coerente, di trovare nel film una logica personale, benché spesso difficile da recuperare.
Passiamo ora però la parola alla possibile difesa della percezione della connotazione sentimentale nella fruizione dell’opera d’arte.
Che finalità estetica perseguono per esempio film come Mamma Roma di Pasolini o I Cento passi di Giordana, romanzi come La certosa di Parma di Stendhal o Il Conte di Montecristo di  Dumas, sculture come la Maddalena Penitente di Donatello o L’Estasi di Santa Teresa di Bernini?
Sono da molti punti di vista (il mio certamente) più credibili la storia di Mamma Roma di Anna Magnani se la recitazione è pienamente popolaresca, se è caratterizzata, dalla forte enfasi emotiva; l’insofferenza, la storia di Peppino Impastato-Luigi Lo Cascio nei Cento Passi, se sono mossi dai suoi instabili furori, il tutto ai fini della trasmissione del messaggio etico, storico, politico, veicolato dal genere drammatico.
E poi come rapire l’attenzione, i sensi, dei lettori se non con la potenza delle passioni, facendo sapientemente vibrare tutte le corde dei sentimenti, come fa Dumas nel suo Conte di Montecristo?
E rapirli perche poi?
Perché la santa Teresa di Bernini sconvolge ancora da quattrocento anni con la sua Estasi tanto sensualmente terrena?
Lo fa, tutti questi artisti fanno ciò che fanno, fondamentalmente per portarci, prima che possiamo accorgercene, nel buio fitto di un sotterraneo e stordirci con luci psichedeliche e fiumi di superalcolici, affinché alla fine possiamo ritenere possibile (e credibile), per poche ore o per tutta la vita, la sovraumana volontà di riscatto di Edmond Dantes, la visione di Dio da parte di santa Teresa, il coraggio folle di Impastato: possiamo pensarle come realtà verificabili e verificatesi in questo e non in altri mondi.
Naturalmente tutto questo se la misura dell’arte fa si che non si verifichi quello che Chabrol vuole accuratamente evitare, il sentimento che si fa unico messaggio autoreferenziale.
Ma non vorremmo ora finire col parlare delle potenzialità artistiche connesse all’effusione lirica dei sentimenti. Ci porterebbe parecchio fuori strada.
Ci preme piuttosto abbozzare una riflessione riguardante il piano puramente percettivo dell’opera d’arte da parte del fruitore appunto.
C’è infatti un secondo aspetto poco considerato nella relazione che l’artista istaura in questa seconda tipologia di produzioni artistiche.
Serviamoci ancora delle citazioni fatte prima.
Riportiamo alla mente ad esempio la scena madre (questa in piena regola stavolta) di Anna Magnani-Mamma Roma che piange come la vergine di Mantegna sul corpo del figlio morto disteso sul nudo catafalco; pensiamo a quel dramma espresso con un pathos vibrante dalla verità recitativa magistrale, alla gestione perfetta dei toni di voce o piuttosto al tenero affetto di Dantes per la figlia, totalizzante, assoluto, espresso tante volte con grande trasporto emotivo. Finendo poi per citare lo sconvolgente realismo della Maddalena, scavata, scarnificata, dal peccato e dal pentimento, all’uso di ogni artificio formale ed espressivo da parte di Donatello per farci provare la sofferenza della donna-santa, l’impossibilità di dimenticare la colpa.
Appunto!
Noi siamo Dantes quando giura alla figlia che tutta la sua vita è ormai per lei, siamo la disperazione vibrante della Magnani davanti al figlio morto, siamo Donatello che ci fa davvero sentire i brividi del tormento, il corpo che si macera sotto i nostri occhi per farci provare la sofferenza di lei.

L’empatia è il vero obiettivo dell’artista che confida nello strumento del sentimento.
Ovviamente scopriamo l’acqua calda, sia in ambito letterario che nella storia dell’arte.
A ben guardare la cosa però non è poi così banale e scontata come appare.
Cos’è in fondo l’empatia. Dal punto di vista puramente psicologico o nell’estetica percettiva è la condivisione delle stesse emozioni tra due individui, non necessariamente in relazione dialettica; potrebbe trattarsi – come si tratta nella fruizione artistica - dell’immedesimazione del ricevente (passivo) con le emozioni dell’emittente (attivo).
Di una comunicazione cioè unilaterale, ma proprio per questo efficace, potentissima. Raramente al di fuori della finzione artistica, nella realtà cioè, in un dialogo avviene l’immedesimazione totale dei due soggetti, in primo luogo perché ciascun individuo reclama nella comunicazione il diritto ad affermare sull’altro il proprio mondo emotivo, sé stesso soprattutto come detentore di una unicità emotiva individuale.
Per volere uscire di poco dal seminato mi pare poi che l’empatia insomma  – tanto per ritornare alla storia della letteratura – sia stato il cuore del soggettivismo nella poesia romantica.
Tornando comunque a noi, se uno degli obiettivi più importanti cui mira l’artista emozionale è l’empatia e l’empatia in arte è immedesimazione del ricevente-passivo con le emozioni dell’emittente-attivo, allora l’artista, Pasolini o Stendhal che sia, in ultima analisi, è un tiranno assoluto nella poesia.
 E’ lui voglio dire che orienta, predispone, organizza trama, forma, metafore, ritmo, tensione emotiva, per preparare il grande spettacolo di illusionismo, le potentissime droghe per balenieri da reclutare a forza, che sono gli artifici dell’opera d’arte emozionale.
Perché si fa forte di un ricatto gigantesco nello statuto letterario stipulato con il lettore-spettatore-fruitore:  io ti alletto con le lusinghe degli impulsi patetici e ti prometto emozioni forti, ma decido io quando, come e perché modulare le corde del pathos, dei sentimenti, con quale intensità, con quali tempi, alzando o attenuando a piacimento i toni e le vibrazioni emotive.
Stabilendo a mio piacimento la quantità e qualità della connessione a banda larga col mio ricevente, l’empatia cioè.

Con brutale ma icastica semplificazione allora si potrebbe affermare in fine che il poeta della sobrietà è per la libertà del fruitore, anche al prezzo del rigore, della freddezza e della’assenza di pathos; il poeta drammatico-effusivo, come l’imperatore Tito che fece costruire il Colosseo, ti offre invece emozioni, colore, vibrazioni, per farti dimenticare che si è fatto tiranno assoluto dell’opera di cui stai godendo.
In definitiva, a ben guardare, Chabrol e Godard stanno all’arte come Robespierre e Fidel Castro stanno alla storia; nella posizione cioè di chi in nome della libertà e dell’eguaglianza tra l’autore e lo spettatore, ha alla sua inorridita presenza sacrificato il re, la regina e saccheggiato i tesori di Versailles.




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