lunedì 21 dicembre 2020

La lingua italiana nasce in Sicilia?


di Fonso Genchi

Il "sicilianismo linguistico", per secoli, si è manifestato nella rivendicazione siciliana della paternità sulla lingua italiana. E ciò è accaduto con buone ragioni. Infatti, non poteva che essere altrimenti, per quello che si sapeva fino a quel momento: i componimenti della Scuola Poetica Siciliana, così come ci appaiono nei codici tardoduecenteschi toscani, quale il Vaticano-Latino 3793, sono scritti in una lingua non diversa dall'italiano, se non in pochi tratti.

Gli eruditi siciliani sostenevano che i fiorentini volessero rubare ai siciliani la paternità sulla lingua italiana; o, quanto meno, ne volessero l'esclusiva (vedere immagine in giallo con testo di Giovanni Ventimiglia). Poi nel 1790 accade una cosa che muta completamente la situazione: lo studioso Tiraboschi trova in una biblioteca un manoscritto del 1500 mai dato alle stampe; si tratta di un'opera del filologo modenese Giovanni Maria Barbieri in cui sono riportate una serie di poesie e tra esse anche una intera e dei versi di componimenti della Scuola Siciliana. Il Tiraboschi rimane sorpreso: infatti tali poesie gli appaiono scritte in una forma molto differente rispetto a quella dei codici tardoduecenteschi toscani; questa lingua è chiaramente un siciliano antico.

Il Tiraboschi lancia l'ipotesi che, dunque, nel Vaticano-Latino 3793, e negli altri codici toscani, le poesie siciliane abbiano subito una sorta di traduzione e che gli originali fossero stati scritti nella lingua che lui leggeva nel libro del Barbieri. All'inizio ci furono resistenze nel credere a ciò; ci fu persino chi disse che il Barbieri si era inventato tutto. Ma alla fine un altro fatto tagliò completamente la testa al toro: la famosa 'rima siciliana' (cioè il rimare imperfetto), che si era pensato fosse una caratteristica della Scuola Siciliana, una 'chiccheria' che fu imitata (anche da Dante) dato il prestigio che aveva tale scuola, in realtà era un prodotto della traduzione in toscano dei componimenti siciliani. Infatti, traducendo al siciliano i testi dei codici toscani, tutte le rime tornavano a combaciare, divenendo 'perfette'. Dunque per secoli si era creduto che alla Scuola di Federico II si fosse usata la lingua che noi leggevamo nei codici toscani e, invece, si era usata una lingua che era molto simile al siciliano odierno. Oggi il "sicilianismo linguistico", pertanto, non dovrebbe più consistere nel rivendicare la paternità sulla lingua italiana ma nel rivendicare l'importanza della lingua siciliana. Ma molti siciliani queste cose neppure le sanno e, dunque, vedono il siciliano per come la cultura coloniale italiana vuole che venga visto, cioè come un idioma inferiore, un dialetto da usare solo in conversazioni familiari e, tutt'al più, amicali ma mai in pubblico; mentre in tutto il mondo è considerato una lingua, tanto da avere un proprio codice ISO (scn). Ma chi volesse approfondire questo ultimo aspetto può leggere qui:
Il Siciliano: nel mondo, una "lingua"; in Italia, un "dialetto"...

Nessun commento:

Posta un commento

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie